Gueules cassées

La Prima Guerra Mondiale fu un vero e proprio massacro. Ma il peggio non venne per chi restò sotto il fuoco delle prime mitragliatrici, o per chi rimase vittima dei gas o delle bombe. Molti furono così fortunati da salvarsi, e così sfortunati da tornare a casa con ferite assolutamente agghiaccianti. I ritardi nei soccorsi non fecero che peggiorare la situazione dei feriti, che spesso non si ripresero più integralmente.

Una categoria particolare di reduci con ferite di guerra è costituito dalle cosiddette gueules cassées, termine francese che significa pressappoco “facce fracassate”. Erano i militari che avevano riportato estese ferite al volto, e che erano per così dire “impresentabili” e dunque difficilmente reintegrabili nella società. Per la prima volta nella storia, però, la medicina aveva i mezzi per cercare di ovviare a questi incidenti. Stiamo parlando, qui, degli esordi pionieristici della chirurgia plastica ricostruttiva del maxillo-facciale. Sulla base di queste prime esperienze i chirurghi furono in grado di sviluppare un’esperienza che, affinatasi nel tempo, permette oggi di restituire una vita quasi normale a persone sfigurate. (È triste ammetterlo, ma questi soldati fecero anche inconsapevolmente da cavia per quelle tecniche che successivamente portarono alla chirurgia estetica vera e propria, quella delle labbra al silicone, del lifting o dei seni rifatti).

In questo blog abbiamo già parlato di terapie piuttosto crudeli relative agli albori della medicina. Quello che colpisce sempre nel riesaminare a distanza di quasi un secolo queste tecniche mediche primitive, è la scarsa considerazione che i medici sembravano avere della sofferenza del paziente. Confrontate i tentativi odierni di essere sempre meno invasivi, delicati, poco intrusivi, con queste tecniche antiquate: il dolore era qualcosa che andava sopportato, punto e basta, mentre i dottori cercavano di salvarti la pelle o migliorarti la vita.

Prendiamo ad esempio i sistemi per aprire la bocca del paziente. Molto spesso, dopo un trauma facciale, i muscoli della mascella rimanevano tirati e in tensione e aprire la bocca risultava impossibile. A seconda del grado di gravità, venivano utilizzati diversi sistemi. L’apri-bocca più comune era questo:

Si trattava di una sorta di morsa “al contrario” che veniva aperta gradualmente per allentare la tensione dei muscoli. Aveva effetti poco rilevanti nel tempo. Altri metodi, però, erano ancora più drastici e dolorosi.

Il “procedimento del sacco”, esposto dal dottor Pitsch nel 1916, è un esempio di terapia davvero brutale. Una volta trovato un interstizio tra i denti, due assicelle venivano inserite nella mascella del paziente.

Appena dischiuse le due pareti dentarie, un uncino veniva attaccato alla mascella inferiore e a questo veniva attaccato un sacco pieno di sassi o carbone il cui peso veniva velocemente aumentato per consentire l’apertura della bocca.

Il procedimento era dolorosissimo e non aveva effetti notevoli a lungo termine, perché i muscoli, troppo bruscamente e violentemente stirati, si ricontraevano poco dopo. Anche se la trazione veniva bilanciata da una banda che tratteneva il capo del paziente, le vertebre della nuca risentivano comunque dello stress.

Più complesso ancora era il caso dei volti sottoposti a un vero e proprio trauma che li aveva lasciati a brandelli e con ferite aperte. La protesi immediata veniva effettuata mediante maschere di contenimento che riportassero assieme i vari frammenti di volto, in modo che non si allontanassero ma anzi si fondessero assieme. L’idea era quella di cicatrizzare l’area più grande possibile, favorendo il consolidamento in buona posizione delle fratture, per permettere in seguito la riparazione delle parti lese. Il casco di Darcissac teneva insieme i diversi “pezzi” di faccia finché non si fossero riattaccati e cicatrizzati. L’intera procedura durava due o tre settimane, di immobilizzazione assoluta.

Passarono alcuni anni, prima che nel 1918 si arrivasse alla rivoluzionaria tecnica di Dufourmentel. Egli scoprì infatti che la pelle del cuoio capelluto reagiva meglio ed era più solida rispetto a quella del braccio. Tagliando quindi ampi lembi di pelle dal cranio dei pazienti, Dufourmentel riuscì a ricostruire elementi fino ad allora inapprocciabili della ricostruizione facciale. Ecco una mandibola “rimodellata” a partire dal cuio capelluto.

Anche gli italiani ebbero una parte in questa “corsa” alla ricostruzione dei volti dei reduci. I medici, infatti, provarono anche a ricorrere a una metodologia già inventata e spiegata addirittura nel XVI secolo dal chirurgo italiano Tagliacozzi, modificando qua e là il procedimento e le indicazioni di questo storico precursore. Questa tecnica si applicava soprattutto alle perdite moderate di tessuto nell’area nasale e del mento.

L’idea era quella di “rialzare” un lembo di pelle dal braccio, connetterlo al tessuto mancante del volto e lasciare che la pelle facesse il suo lavoro, “ricucendosi” con le parti mancanti. Ovviamente bisognava assicurarsi che il braccio fosse immobilizzato, per due o tre settimane, al fine di permettere la vascolarizzazione dei nuovi tessuti. Questa tecnica era stata, nei secoli precedenti, violentemente ostracizzata dalla Chiesa, a motivo della presunta interferenza con i piani del Creatore, e la Santa Sede dispose addirittura la riesumazione del Tagliacozzi e la sua sepoltura in terra non consacrata.

Infine la tecnica di ricostruzione prevedeva degli esperti dentisti che, a partire dai calchi del volto dei pazienti, progettavano e scolpivano protesi che potessero ridare loro la fisionomia perduta.

Le protesi alle volte includevano occhiali per dissimulare l’artificio.

Infine, ecco un raro filmato della Croce Rossa, datato 1918, in cui alcuni dottori e infermiere posizionano e controllano l’efficacia delle protesi facciali su alcuni reduci.

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Le tecnologie di ricostruzione del maxillo-facciale hanno da allora fatto un passo in avanti decisivo, e ad oggi costituiscono la fortuna di chirurghi plastici proprietari di atolli e isolotti, così come di onesti medici che cercano di ridare il sorriso e un’integrazione maggiore alle vittime di incidenti terribili.

Per ironia della sorte, la chirurgia estetica è nata proprio da uno dei più grandi e sanguinosi confilitti che il mondo abbia mai conosciuto.

Phineas Gage

Phineas Gage era un semplice operaio americano, capocantiere addetto alla costruzione di ferrovie. Era un uomo umile, affettuoso, amichevole e gentile, certo, ma poteva aspettarsi tutto… tranne che per una tragica sfortuna la sua vita cambiasse la storia.

Il 13 settembre 1848, nei pressi di Cavendish nel Vermont, Phineas stava inserendo una carica esplosiva all’interno di una roccia che andava fatta saltare per poter far passare i binari che i suoi uomini stavano costruendo. Con la sicurezza dettata dall’abitudine, Phineas stava pressando della polvere da sparo nella fenditura della roccia con un ferro di pigiatura, quando improvvisamente la polvere esplose. Il lungo palo che egli aveva in mano fu sparato verso l’altro, conficcandosi nella guancia proprio sotto all’occhio sinistro, e uscendo dalla parte superiore del cranio. Il ferro aveva trapassato i lobi frontali del suo cervello, andando poi ad atterrare 25 metri più in là.

Eppure, miracolosamente, dopo pochi minuti Phineas era già cosciente e in grado di parlare. Affrontò senza problemi il viaggio di 4 miglia fino allo studio di un dottore. Il medico, nonostante l’evidente, tremenda emorragia, non poteva credere al racconto di Gage, che insisteva nel dire che un ferro gli avesse trapassato la testa: chi poteva essere tanto fortunato da raccontare una storia simile, vivo e vegeto, e perfettamente razionale? Il medico pensò che forse era successo qualcosa di meno grave, finché Gage non si alzò per vomitare. Lo sforzo fece emergere dal foro sul cranio un pugno di materia cerebrale che cadde sul pavimento. A quel punto, era chiaro che non si trattava di un paziente sotto shock che blaterava a vanvera: una parte del cervello di Phineas era davvero stata maciullata dal trauma.

La convalescenza di Gage fu difficoltosa, passata per molto tempo in stato semi-comatoso, con risposte a monosillabi solo se interpellato direttamente. Eppure, il 7 ottobre Phineas si alzò dal letto, e meno di un mese dopo camminava già tranquillo nella piazza del paese, saliva e scendeva le scale, e si riprendeva a vista d’occhio, senza dolori o sintomi fisici preoccupanti. Ma non tutto era come prima. Il suo carattere era cambiato, si era fatto oscuro e imprevedibile.

A causa dell’incidente, Gage divenne talmente irascibile, e privo di qualsiasi freno inibitore, che nemmeno gli amici intimi potevano più riconoscerlo. Non sopportava il minimo diniego o consiglio, si lasciava andare a bestemmie e volgarità che contrastavano con il suo precedente contegno, faceva mille progetti che abbandonava minuti dopo: venne descritto come un bambino con gli istinti animaleschi di un adulto. La sua antisocialità lo portò a perdere il lavoro, e molte delle sue amicizie.


Nonostante il suo cambiamento di personalità sia stato nel corso del tempo grandemente esagerato, in molti degli scritti e degli studi a lui dedicati, Phineas Gage rimane comunque un esempio unico nel campo della neurologia, della psicologia e delle materie correlate. Gli studi sulle condizioni di Gage hanno apportato grandi cambiamenti nella comprensione clinica e scientifica delle funzioni cerebrali e della loro localizzazione nel cervello, soprattutto per quanto riguarda le emozioni e la personalità, e le diverse competenze dei due emisferi cerebrali. È anche in seguito alle riflessioni teoriche avviate in conseguenza di questo caso che, per alcuni decenni della metà del XX secolo, sono stati usati metodi, oggi in totale disuso, come la lobotomia prefrontale (già affrontata su Bizzarro Bazar, in questo articolo)  per curare certi tipi di disturbi del comportamento. Il caso Gage è ancora oggi citato e studiato ampiamente nella saggistica neurologica.

Il teschio di Gage e il bastone di ferro che ha causato il suo trauma cranico sono esposti al pubblico nel museo della Harvard Medical School. Una vita sfortunata, a cui dobbiamo la grande fortuna di conoscere meglio la struttura e le funzionalità dell’organo a tutt’oggi più misterioso, il nostro cervello.

Phineas Gage su Wikipedia (pagina inglese).