Speciale: Mariano Tomatis

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Ama l’appellativo di wonder injector, istillatore di meraviglia o “tecnico dello stupore”. Quello che comincia come un rapido giro sul suo sito o sul suo blog si trasforma inevitabilmente in un viaggio di diverse ore, in preda ad una vertigine crescente. È difficile raccontare o definire Mariano Tomatis, ed è bello che lo sia.

Mariano si occupa di illusionismo, magia, matematica, criminologia e tecnologia. Ma, qualsiasi campo stia affrontando, lo fa inevitabilmente da un punto di vista inaspettato. Il suo lavoro è tutto proteso a un nuovo modo di relazionarsi con la meraviglia, a farla irrompere nel nostro quotidiano superando i modi triti e ritriti di quei misteri che in queste pagine abbiamo spesso definito “da supermarket”, preconfezionati, tipici di tanti libri o trasmissioni televisive.

Mariano Tomatis è il tipo di persona che, leggendo uno strano trattato esoterico seicentesco contenente alcune tavole crittografate secondo un sistema complicatissimo, si domanda: che tipo di computer avranno usato per codificarlo, all’epoca? E lo costruisce.

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È anche il tipo di persona che, vedendo l’ennesimo numero di magia in cui una bella ragazza viene tagliata a metà, sa scorgerne le implicazioni sessiste e non esita a raccontarci come un numero simile sia nato sorprendentemente proprio da problematiche politiche legati agli albori dei diritti della donna (in questo breve documentario).

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O, ancora, esaminando uno dei quadri più celebri della storia dell’arte ci racconta le infinite risme di ipotesi, sempre più fantascientifiche, che il dipinto ha originato… per poi gelarci con un’interpretazione molto più semplice e illuminante.

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La performance che ha scritto assieme a Ferdinando Buscema ha aperto Ingenuity, una sontuosa celebrazione dell’intelligenza, della curiosità e della meraviglia che ha coinvolto scienziati, artisti, scrittori, designer, musicisti e maghi provenienti da tutto il mondo, organizzata da BoingBoing, uno dei siti di informazione geek e cyberpunk più letti al mondo. Potete vedere la performance qui.

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Oltre ad aver scritto libri sul mentalismo, sui numeri e sull’illusionismo, Mariano ci regala continuamente nuovi stimoli, riportando storie curiose e poco note che affronta con scrupolo, determinato com’è a “illuminare le meraviglie sul confine tra Scienza e Mistero”.

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In esclusiva per Bizzarro Bazar, ecco la nostra intervista a Mariano Tomatis.

Qual è la tua formazione?

Ho una laurea in Informatica e mi occupo di illusionismo da quindici anni.

Come hai incominciato ad appassionarti di illusionismo, misteri e scienza?

Recentemente ho ritrovato un tema scritto quando facevo le elementari, in cui mi ripromettevo – quando fossi stato “grande” – di fare luce sui principali misteri: dal mostro di Lochness al triangolo delle Bermude, fino alla perduta città di Atlantide. Ho incontrato l’illusionismo ammirando il mago Silvan e formandomi sulle sue scatole magiche. Vivendo a Torino, ho avuto la fortuna di scoprire e frequentare il Circolo Amici della Magia, dove l’arte magica è particolarmente valorizzata. Da qualche anno, insieme a Ferdinando Buscema, stiamo definendo il concetto di “magic experience design” – un approccio all’illusionismo che trascende il contesto teatrale e interviene sulla realtà, facendo succedere eventi magici nel quotidiano.

Il tuo approccio ai cosiddetti “misteri” (quello di Rennes-le-Château viene in mente per primo) è del tutto originale – ironico, scettico, e allo stesso tempo entusiasta: come concili queste tendenze? Si può dire che tu stia sfruttando il fascino di questi enigmi per parlarci in realtà di qualcos’altro?

Conciliare una consapevolezza razionale e un’immersione ingenua nei misteri potrebbe sembrare il tentativo di avere la botte piena e la moglie ubriaca, eppure si tratta di un equilibrio su cui molti autori hanno scritto pagine brillanti. Michael Saler lo chiama “incanto disincantato”. Joshua Landy parla di “sistemi di credenze consapevoli della propria illusorietà”. Orhan Pamuk confessa di scrivere romanzi la cui funzione principale è quella di coltivare tale capacità nel lettore. Il padre della prestigiazione moderna, Robert-Houdin, costruiva i suoi spettacoli in modo da premiare un atteggiamento di distaccata credulità. Con Sherlock Holmes, Conan Doyle ha creato un personaggio talmente verosimile che oggi i suoi fan continuano a visitare la sua casa in Baker Street a Londra, del tutto consapevoli di partecipare a un gioco. Coltivare nel lettore moderno questo atteggiamento è una scelta estetica a cui aderisco pienamente.
Nel dichiarare i suoi intenti, il Cicap afferma di usare il fascino dei misteri per spiegare la Scienza. Nel mio caso, spiegare la Scienza è solo un effetto collaterale: il mio intento è quello di contribuire al re-incantamento del mondo, e credo che il miglior modo di farlo sia l’educazione all’incanto disincantato.

In diversi tuoi lavori si avverte una particolare vertigine, che è quella di non poter esattamente sapere a che punto finiscono i fatti, e quando incomincia il “trucco”. Anche qui ho la sensazione che mischiare realtà e finzione sia, certamente, un gioco divertente; ma al tempo stesso, vista la sistematicità con cui lo utilizzi, che vi sia dietro un progetto più preciso.

Credo di averti risposto sopra. Per citare un altro dei miei autori più amati, Lovecraft mescolò in modi raffinati realtà e finzione, producendo potenti sensazioni di straniamento attraverso i suoi racconti. Nel suo Weird Realism: Lovecraft and Philosophy Graham Harman ne esplora le tecniche narrative con una notevole ampiezza di analisi. Leggendo Harman, oggi mi chiedo come Lovecraft avrebbe sfruttato Twitter, Facebook e YouTube per produrre le stesse sensazioni disturbanti. Accostare personaggi di epoche lontane alle moderne tecnologie offre straordinari spunti creativi. Se c’è un progetto dietro la sistematicità con cui lavoro su questi confini, esso riguarda la possibilità di portare alla luce modi per meravigliare sempre nuovi, più profondi e al passo coi tempi. E magari di ispirare un Lovecraft 2.0!

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Il mentalismo è intrigante soprattutto in quanto smaschera le trappole del nostro pensiero. Si può dire che vi sia un utilizzo “sano” del mistero e della meraviglia, e un altro invece “pericoloso”?

Michael Saler identifica nell’ironia l’elemento che è alla base della meraviglia “sana”. Inganno (e autoinganno) diventano pericolosi dove non c’è consapevolezza ironica, ma aperta volontà di approfittare di un altro individuo. Dovremmo sempre tenere in mente le parole di Joseph Pulitzer: «Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri».

Hai parlato di educazione alla complessità: come sta cambiando, o come deve secondo te cambiare, la magia nell’era tecnologica, non soltanto a livello di nuovi strumenti ma anche di portata etica?

La mentalità postmoderna deve contaminare l’illusionismo molto più di quanto abbia fatto finora. È ora che i prestigiatori si interroghino seriamente sul ruolo che possono avere le loro storie nel mondo contemporaneo. Terence McKenna diceva che «il vero segreto della magia è che il mondo è fatto di parole, e che se tu conosci le parole di cui il mondo è fatto puoi farne quello che vuoi». Anche se sembra una considerazione esoterica, è un’immagine precisa del potere che hanno le storie nel plasmare la realtà. Concordo con Wu Ming 4 quando scrive che “le narrazioni ci appartengono almeno quanto noi apparteniamo a esse. Noi interagiamo con le narrazioni allo stesso modo in cui interagiamo con il mondo che ci circonda, consapevoli che per cambiarlo abbiamo innanzi tutto bisogno di raccontarlo diversamente”. Credo che l’illusionismo, come la letteratura militante, possa avere una dimensione marziale – e che tale forza sia ampiamente da esplorare. Il mio documentario Donne a metà (2013) va in quella direzione. Penn&Teller sono la coppia di illusionisti più all’avanguardia su questo versante.

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Da specialista dell’incanto per il tuo pubblico, c’è qualcosa oggi che riesce ad incantare te?

Continuamente. Aderisco totalmente alla metafora che David Pescovitz usò per rispondere alla domanda della rivista Edge “Che cosa ti rende ottimista?” L’editor del blog BoingBoing scrisse di essere ottimista perché il mondo è una gigantesca Wunderkammer, pronta a stupirci a ogni angolo.
Un blog come il tuo ha il grande valore di dimostrarlo quotidianamente.

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Ecco il sito ufficiale di Mariano Tomatis.

Speciale: Krokodyle

Da bambini, tutti sognano di fare l’astronauta. Ma qualcuno sognava di diventare un becchino.

Se c’è un regista italiano che, per temi, dimostra una vera e propria “affinità elettiva” con il nostro blog, è Stefano Bessoni. Fin dai primi corti, le sue immagini pullulano di esemplari tassidermici, wunderkammer, bambole e preparati anatomici, scienze anomale, fotografie post-mortem, e tutto quell’universo macabro e straniante che caratterizza in buona parte anche Bizzarro Bazar. Ma la lente attraverso cui Bessoni affronta questi argomenti è pesantemente influenzata dalle fiabe, Alice e Pinocchio sopra a tutte, filtrate dalla sua vena di visionario illustratore.

Dopo il suo esordio al lungometraggio con Imago Mortis nel 2009, segnato da mille traversie produttive (ma qualcuno ricorderà anche il precedente Frammenti di Scienze Inesatte, mai distribuito), Bessoni ritorna quest’anno a una dimensione indie che gli è forse più congeniale. Se infatti Imago Mortis, pur contando su un notevole dispiego di mezzi, aveva sofferto di alcuni compromessi, il suo nuovo Krokodyle si propone come visione “pura” e totalmente svincolata da pressioni commerciali.

Gli elementi più apprezzati del film precedente, vale a dire la cura per i dettagli fotografici e scenografici, le atmosfere gotiche e macabre, la riflessione metacinematografica, si ritrovano anche in Krokodyle, nonostante la decisione di operare in low-budget e assoluta indipendenza artistica. Bessoni costruisce qui una specie di scrigno di “appunti di lavoro” che testimonia della varietà e profondità dei temi a cui attinge la sua fantasia. Se in Imago Mortis trovavamo la fascinazione per lo sguardo, i teatri anatomici, le favole nere, in Krokodyle il protagonista Kaspar Toporski (alter ego del regista, interpretato da Lorenzo Pedrotti) si trova a “raccogliere” in una collezione virtuale tutte le sue più grandi passioni: l’amore per le stanze delle meraviglie, l’animazione  in stop-motion, la fotografia (ancora), l’esoterismo più grottesco e fumettistico, le creature magiche medievali (mandragole e homunculi), la frenologia, l’archeologia industriale, la letteratura… e, infine, il cinema. Il cinema visto come necessità ed estasi, libertà assoluta di inquadrare “con il cuore e con la mente”, vero e proprio processo alchemico capace di infondere vita a un mondo immaginario.

In esclusiva per Bizzarro Bazar, ecco un’intervista a Stefano Bessoni.

Con Krokodyle ritorni a una dimensione più indipendente – meno soldi e più libertà espressiva. In quale dimensione ti senti più a tuo agio? Cosa trovi di positivo e negativo nelle due differenti esperienze produttive?

L’ideale sarebbe avere tanti soldi e la completa libertà espressiva, ma questa è un’ovvietà. Mi trovo sicuramente molto più a mio agio nella dimensione indipendente, anche se non è possibile farlo senza trovare un minimo di finanziamento e un rientro economico che permetta almeno di coprire i costi del film. Lavorare per il cinema commerciale è invece massacrante, per non dire avvilente, ti annullano le idee e tutta la creatività costringendoti a lavorare come se fossi comunque un indipendente, limitandoti brutalmente il budget destinato all’aspetto visivo ed espressivo, per poi gettarti in pasto al pubblico senza farsi troppi scrupoli. Certo mi auguro che non sia sempre così e che magari, trovando i produttori giusti, si possa anche lavorare in sintonia su un prodotto che possa sposare esigenze commerciali ed espressive. Comunque mi piacerebbe molto continuare a lavorare da indipendente, assieme ai miei amici fidati di Interzone Visions (produttori di Krokodyle), sognatori e visionari come me, cercando però di mettere in piedi budget soddisfacenti per produrre film particolari, di ricerca visiva, ma allo stesso tempo accattivanti per il grosso pubblico.

È inevitabile che qualsiasi cosa tu faccia venga rapportata al cinema italiano. All’uscita di Imago Mortis erano stati citati Bava, Margheriti, e (forse a sproposito) Argento. In Krokodyle “rispondi” dichiarando il tuo amore per Wenders e Greenaway. Dove sta la verità?

La verità è che io ho iniziato a fare cinema guardando autori come Greenaway, Wenders, Jarman, Russell, poi ho scoperto il cinema espressionista tedesco e quello surrealista, l’universo fantastico di Svankmajer e dei fratelli Quay, insieme al grottesco di Terry Gilliam e di Jean Pierre Jeunet, infine mi sono lasciato contaminare da una buona dose di cinema di genere, avvicinandomi in questi ultimi anni a figure come Guillermo del Toro. Gli autori ai quali mi accomunano non li conosco nemmeno bene, li ho visti di sfuggita quando ero bambino e non credo che mi abbiano mai influenzato più di tanto.

Krokodyle si presenta fin da subito come un oggetto particolare, un “contenitore di appunti”. In questo senso sembra un film estremamente personale, quasi pensato per riorganizzare e fissare alcune tue idee in modo permanente. Ma un film deve anche saper incuriosire ed emozionare il pubblico, non può essere ad esclusivo “uso e consumo” di chi lo fa. Come hai mediato questi due aspetti? Come si concilia l’onestà di una visione con i compromessi commerciali?

Krokodyle è indubbiamente un film molto personale. Un film per me necessario per permettermi di fare il punto della situazione sulle mie idee e sulla mia condizione di filmmaker diviso tra indipendenza e cinema commerciale. Penso comunque che anche qualcosa di estremamente personale, se raccontato con fantasia e vivacità, possa destare l’interesse del pubblico. In fondo si dice che si dovrebbe raccontare solamente quello che si conosce molto bene, ed io ho fatto esattamente questo.

Hai spesso parlato del cinema come wunderkammer. Al giorno d’oggi, cos’è che ti provoca meraviglia?

Tante cose mi meravigliano, cose che magari altri non degnerebbero neanche di attenzione. Un animaletto rinsecchito, un insetto, una macchia d’umidità su un muro, un ferro arrugginito, un tratto di matita che lascio su un foglio quasi casualmente. Mi meravigliano le immagini e tutti gli espedienti e le tecniche per catturarle o crearle. Mi meraviglia il cinema, che considero la mia personale camera delle meraviglie, e trovo peculiare che la macchina da presa venga spesso chiamata camera.

Il film è stato in parte realizzato a Torino. Come è stato girare al Nautilus?

Il Nautilus è un posto che adoro. Ogni volta che vado a Torino non posso fare a meno di andarci e di intrattenermi per ore con il mio amico Alessandro Molinengo, perdendomi tra le mille curiosità e stranezze di quella bottega meravigliosa. Lì dentro si respirano le ossessioni degli antichi costruttori di wunderkammer, si percepiscono le perversioni di strambi sperimentatori scientifici e riaffiorano nella mente le descrizioni delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz. In parte l’idea iniziale di Krokodyle è partita proprio dentro a quella bottega tanto macabra quanto bizzarra. Girarci è stato come girare a casa… a parte il terrore di rompere qualche reperto dal valore inestimabile!

Krokodyle, come altri tuoi lavori, è mosso da passione enciclopedica, e stupisce per quantità e ricchezza di riferimenti “alti” – letterari, cinematografici, scientifici, magico-esoterici. Eppure il tutto è filtrato da una leggerezza e un sorriso quasi infantili. Quanto è importante l’umorismo per te?

L’umorismo per me è fondamentale, soprattutto se parliamo di un ironia tendente al grottesco e al mondo dell’infanzia. Sono pervaso da una forte dose di umorismo nero che inevitabilmente riverso in ogni lavoro che faccio, che sia un film, un’illustrazione o uno scritto. È un temperamento molto più nordico, anglosassone e lontano dal modo di fare tipicamente italiano. Infatti vengo normalmente visto come un folle o un degenerato, come uno che rema controcorrente, uno da biasimare e allontanare, che mai riuscirà a comprendere le gioie e le delizie della commedia italiana più mainstream, dove calcio, doppi sensi, peti, tette e culi sono ingredienti prelibati per “palati raffinati”.

Gli attori nel film sembrano ben integrati e assolutamente a proprio agio nel tuo mondo. Eppure, recitare in Krokodyle dev’essere stato un po’ come entrare nella tua testa, e far finta di esserci sempre stati. Ok, mi dirai, sono attori… come li hai introdotti in questa realtà macabra e straniante? Che domande ti hanno fatto? Quali difficoltà hanno incontrato?

Non è stato facile, ma sono tutti attori che mi conoscono molto bene e che avevano già lavorato su Imago Mortis. Hanno accettato con entusiasmo di lavorare su Krokodyle proprio per aiutarmi a raffigurare personaggi estremamente intimi. Abbiamo lavorato molto, affrontato lunghe discussioni, e ho pensato a loro fin dalla fase di scrittura, proprio per avere il totale controllo dell’operazione. Somigliano anche ai miei disegni e non fatico a riconoscerli come qualcosa di estremamente familiare, di “mio”. Sono molto soddisfatto del risultato ottenuto.

In Italia l’idea diffusa è che il cinema debba riflettere la realtà, la condizione sociale, parlare insomma di problemi concreti. In una delle immagini più poetiche di Krokodyle, il protagonista fa partire una macchina da presa tenendola vicino all’orecchio, finché il ronzìo del trascinamento della pellicola non copre e annulla il rumore del traffico e dei clacson fuori dalla finestra. Il cinema è per te una fuga dalla realtà? Ti senti in colpa per le tue fantasticherie o le rivendichi orgogliosamente? Insomma, l’esotismo è una vigliaccheria o un diritto?

In colpa? Assolutamente no! Ne sono consapevole ed orgoglioso. L’esotismo, come lo definisci tu, è un privilegio, un dono, un’illuminazione. Io mi sento un fortunato. E poi, sembra strano dirlo, ma per me Krokodyle è un film sulla realtà, sulla realtà che io vivo tutti i giorni. La realtà è fatta di mille sfaccettature e quella che un certo cinema si ostina a propinare è solamente una piccola parte, forse quella più evidente. Basta saper osservare, ascoltare, per scovare un infinità di livelli di realtà che non ci sognavamo minimamente che potessero esistere. Anche gli specchi in fondo non sempre riflettono la realtà, basta pensare a quello che è successo ad Alice. Per concludere vorrei citare una frase di Jean Cocteau proprio a proposito di questo: “gli specchi farebbero bene a riflettere prima di rimandarci la nostra immagine…”

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Ricordiamo che il film è in uscita nelle edicole in DVD a partire da metà giugno, in allegato con la rivista Dark Movie, contenente uno special di 16 pagine interamente dedicato al film.

Ecco il blog di Stefano Bessoni, e il sito ufficiale di Krokodyle.

Il Tempio delle Torture

Wat Phai Rong Wua.

Se visitate la Thailandia, ricordatevi questo nome. Si tratta di un luogo sacro, unico e assolutamente weird, almeno agli occhi di un occidentale. Tempio buddista, mèta annuale di migliaia di famiglie, è celebre per ospitare la più grande scultura metallica del Buddha. Ma non è questo che ci interessa. È famoso anche per il suo Palazzo delle Cento Spire, ma nemmeno questo ci interessa. Quello che segnaliamo qui sono le dozzine di figure e complessi statuari che descrivono torture e sevizie riservate dai demoni dell’inferno alle anime in pena.

Infilzate in faccia, o intrappolate nelle fauci di orrendi mostri, con le interiora esposte, trafitte da spade e lance, queste sculture lasciano ben poco all’immaginazione: se non diciamo le preghierine alla sera, non ce la passeremo tanto bene nell’aldilà. Questo macabro e violentissimo “parco di attrazioni” ha per i fedeli un valore educativo. È una visualizzazione grafica e figurativa della sofferenza e dell’inferno.

Certo, c’è da dire che il rapporto dei thailandesi con la morte è meno travagliato del nostro; eppure, per quanto a prima vista il giardino delle torture di Wat Phai Rong Wua possa sembrare una soluzione estrema per colpire la fantasia dell’uomo illetterato, ricordiamoci che anche le nostre chiese abbondano di dipinti e allegorie non meno violente o macabre. Ormai abituati all’arte del Novecento, che si è man mano astratta dal bisogno di veicolare o avere un significato, ci dimentichiamo facilmente del ruolo avuto anche nella nostra storia dell’arte figurativa: quella di educare le masse, di proporsi come libro illustrato, e di servire quindi alla formazione di un immaginario anche per quanto riguarda i mondi a venire.

Scoperto via Oddity Central.

Rock’n’roll con Andy Kaufman!

Il compianto genio comico americano Andy Kaufman era celebre per annullare i confini tra lo sketch di commedia e la performance artistico-teatrale. Raramente i suoi numeri facevano effettivamente ridere nel senso classico: erano una sorta di sfida con il pubblico più smaliziato, un gioco meta-teatrale che mirava a destabilizzare e a deludere ogni possibile aspettativa, per affermare la libertà assoluta dell’artista. Gli spettatori venivano beffati, sbeffeggiati, insultati e continuamente sorpresi; ogni sua esibizione era un vero e proprio esperimento sui limiti del teatro e della sua rappresentazione. Finte vecchiette che salivano sul palco simulando infarti, monologhi teatrali che continuavano, dopo l’orario di chiusura del locale, sul traghetto per Staten Island, personaggi assurdi che cantavano stonati e inascoltabili, incontri di wrestling contro femministe incattivite, finte liti e risse con altri attori, letture integrali  di testi letterari serissimi della durata di diverse ore – Kaufman metteva a dura prova i nervi dei suoi spettatori, per cercare di “risvegliarli” dal torpore del già visto.

Nel filmato che vi proponiamo, Andy Kaufman sigla forse la canzone definitiva del rock’n’roll. Un unico verso ripetuto all’infinito, nonsense eppure vagamente accusatorio: “I trusted you” – “Mi fidavo di te”.

Cosa sta facendo, qui, Kaufman? Interpreta un rockettaro sfigato, frustrato e megalomane che non sa nemmeno scrivere il testo di una canzone? Ci sta dicendo che qualsiasi messaggio si voglia inserire in un pezzo rock, diviene totalmente ininfluente, privato di ogni significato dalla continua reiterazione del mercato? Sta veramente accusando il pubblico di non avergli dato fiducia? O forse ci sta per l’ennesima volta prendendo per i proverbiali fondelli…?

E quanti, fra il pubblico, avranno intuito che erano proprio loro i protagonisti di questo sketch demenziale, e che le loro reazioni erano il vero fulcro della performance?

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