La biblioteca delle meraviglie – X

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Evertrip
TEGUMENTA
(2013, Edizioni Esperidi – www.tegumenta.it)

Oggi tutti leggono libri. Si legge tantissimo, spesso tomi di centinaia e centinaia di pagine, basta guardarsi in giro in spiaggia. Non è della quantità che dovremmo preoccuparci, ma della qualità. E se il panorama editoriale mainstream, in Italia, è avvilente, spesso anche quello underground non è migliore: i piccoli editori, che non se la passano benissimo, sono disposti a pubblicare qualsiasi cosa a pagamento. Quindi, oggi tutti scrivono libri.

Il problema di chi si immagina di saper scrivere, come risulta spesso evidente fin dalle righe iniziali, è che l’autore non è mai stato innanzitutto un vero lettore – dettaglio che l’avrebbe forse portato a cimentarsi con timore ed umiltà maggiori nell’arte letteraria, per amore e rispetto dei maestri che venera. Il difetto che maggiormente opprime questi “nuovi autori” è l’assoluta mancanza di una forma: talvolta un embrione di idea può anche far capolino fra le pagine, ma l’amore per la ricerca espressiva è un sentimento che davvero pochi sembrano conoscere o coltivare.

Per questo motivo salutiamo come un’insperata sorpresa il libriccino di Evertrip, al secolo Paolo Ferrante, classe 1984. Un libro che ricorda i surrealisti, a tratti le poesie di Arrabal, le sperimentazioni di Burroughs o del Ballard degli anni ’70. Il suo “dizionario emozionale” è un brillante tentativo di far respirare assieme parole e immagini (illustrazioni di cui l’autore stesso è responsabile), cercando costantemente la forma più inaspettata per setacciare le dialettiche interne di un rapporto sentimentale.

Ed è proprio la forma a farsi contenuto, perché Tegumenta si presenta a una prima occhiata come un dizionario minimo, in cui ogni lettera contiene soltanto uno o due vocaboli o locuzioni; all’asetticità del glossario si somma la propensione scientifico-clinica del linguaggio, che si propone di descrivere con piglio analitico le correlazioni fra sentimenti e anatomia.

Ma, ed è questo lo scarto poetico più interessante, ecco che di colpo l’oggettività delle “definizioni” subisce una deviazione improvvisa: passa, imprevedibile, dalla terza alla seconda persona singolare, rivolgendosi direttamente all’oggetto/soggetto del desiderio; fino a che, tra etimi implausibili (intriganti per lo sfaglio di senso che operano), distorsioni della realtà e sottili invenzioni iconografiche, tra involuzioni e rivoluzioni, è il linguaggio stesso ad implodere.

Ad esempio ecco che la definizione di bezoario diviene d’un tratto il simbolo per esprimere la vertigine sentimentale:

BEZOAR: 1. s.n. agglomerato di fibre vegetali (fibrobezoari) o di peli animali (tricobezoari) che si forma nello stomaco dell’uomo a seguito dell’ingestione abnorme di tali componenti. Nello stomaco genera uno stato di infiammazione cronico, seguito da lesioni sanguinanti della mucosa.
2. ti sento vera come il panico, infatti scivolo, scivolo nello stagno, ho le stoppie in gola, scivolo e non sono ancora pazzo, l’acqua è fredda e sembra un suicidio […]

Alla voce “epidermide” leggiamo:

EPIDERMIDE: s.f. lo strato morbido che ti separa dalle mie mani, situato fra la mia lingua e il tuo sangue.

In Tegumenta si percepisce la presenza di una “voce narrante”: è quella di un personaggio (mai esplicitato, visto che forse si confonde in parte con l’Autore) che potremmo definire il Catalogatore Psichico, ossessionato da un’impresa impossibile: quella di costruire un manuale per orientarsi fra gli strazi fisici, i dolori dell’anima e le convulsioni emotive che accompagnano ogni passione erotica. E se qua e là, in virtù degli slanci poetici e dei non detti, si riesce ad intravvedere il bagliore di un’illuminazione, ciò che rimane di tutto questo tortuoso classificare ogni piccolo moto dello spirito è il sentimento di impotenza al cospetto di misteri più grandi dell’umana comprensione: il corpo, la carne e le sue inconcepibili escrescenze, e l’amore che ne emerge come il più inspiegabile e irrazionale dei fenomeni.

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D. von Schaewen, J. Maizels, A. Taschen
FANTASY WORLDS
(1999, Taschen)

Fra gli splendidi volumi illustrati della Taschen, questo è uno fra i più preziosi. Un viaggio attraverso i cinque continenti, alla scoperta dei luoghi più affascinanti  e “incantati”: opere d’arte multiformi, barocche, oppure infantili, ma sempre sorprendenti. Il libro ci guida fra palazzi di conchiglie, bestiari fantastici scolpiti nelle falesie, parchi delle meraviglie, strane abitazioni dall’aspetto alieno, e si sofferma sui più interessanti esempi di outsider art. Molto spesso, infatti, dietro queste bizzarrie architettoniche si cela la mente di una sola persona, assillata dal “progetto di una vita”, e che partendo da materiali riciclati e umili ha saputo costruire qualcosa di unico. Sia che cerchiate qualche meta turistica fuori dalle classiche mappe, o che preferiate starvene sprofondati nel divano a fantasticare, questo libro è un compagno perfetto.

Holt Cemetery

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A New Orleans, se scavate due o tre metri nella terra, potreste trovare l’acqua. Questo è il motivo per cui, in tutto il Delta del Mississippi (e in gran parte della Louisiana, che per metà è occupata da una pianura alluvionale), di regola i cimiteri si sviluppano above ground, vale a dire in mausolei e loculi costruiti al di sopra del livello del suolo. Ma ci sono eccezioni, e una di queste è lo Holt Cemetery.

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Si tratta del “cimitero dei poveri”, ossia del luogo che ospita i cari estinti di coloro che non possono permettersi di far costruire una tomba sopraelevata. I costi funerari, negli Stati Uniti, sono esorbitanti e perfino famiglie in condizioni più o meno agiate devono talvolta aspettare mesi o anni prima di poter permettersi il lusso di una lapide. Lo Holt Cemetery è una delle “ultime spiagge”, riservate ai meno abbienti.

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Non è raro trovarvi delle lapidi in legno o altri materiali, insegne di tipo artigianale, su cui sono stati iscritti con vernice e pennello le date di nascita e di morte del defunto.

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In altri casi le tombe ospitano gli effetti personali del morto, perché la famiglia non aveva spazio o possibilità di metterli da parte – ma questa non è forse l’unica motivazione. New Orleans infatti è stata storicamente il crocevia di diverse etnie (neri, europei, isleños, creoli, cajun, filippini, ecc.), e ha raccolto un patrimonio culturale estremamente variegato e complesso. Questo si rispecchia anche nei rituali religiosi e funebri: alcuni di questi oggetti sono stati lasciati lì intenzionalmente, per accompagnare il parente nel suo viaggio nell’aldilà.

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Ma il problema dello Holt Cemetery è che lo spazio non è mai abbastanza: quando una tomba è in stato di abbandono, i guardiani possono decidere di riutilizzarla. Non esiste un piano regolatore, non esistono posti assegnati, né un vero e proprio registro. I nuovi morti sono sepolti sopra a quelli vecchi, dei quali non rimane traccia alcuna. Così, per evitare che si salti a conclusioni affrettate, alcune famiglie continuano a lasciare nuovi oggetti, o a sistemare corone di fiori, a erigere recinti o semplicemente a modificare l’aspetto della lapide per segnalare che quel loculo è ancora “in uso”. Si racconta ad esempio di una tomba accanto alla quale qualche anno fa era stata posizionata una sedia di latta, e sulla sedia stava aperto un libro che cambiava ogni settimana.

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I sepolcri più appariscenti, nel cimitero di Holt, sono quelli della famiglia Smith. Arthur Smith, infatti, è un artista locale che ha partecipato a diverse mostre di outsider art: ancora oggi lo si può vedere spingere il suo carrello per le discariche della città, alla ricerca di quei tesori con cui fabbricherà la sua arte povera. È proprio lui che mantiene in continua evoluzione le istallazioni che ha costruito attorno alle tombe di sua madre e di sua zia. (Potete trovare altre foto della sua produzione artistica qui).

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Nonostante i recinti e le cure dei familiari, come dicevamo all’inizio, il grande problema di New Orleans è sempre stata l’acqua, e non solo quella violenta e brutale degli uragani: basta una piena del Mississippi per causare gravi fenomeni alluvionali. Un po’ di pioggia, perché cada anche l’ultimo tabù. Ecco allora che nel piccolo cimitero di Holt i morti tornano a galla. Dalla terra umida affiorano parti di teschi, ossa che sventolano ancora brandelli di vestiti, piccoli rimasugli sbiancati dal tempo e dalla natura.

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C’è chi, venendo a conoscenza della situazione allo Holt Cemetery, grida allo scandalo, al sacrilegio e allo svilimento della dignità umana; ed è ironico, e in un certo senso poetico, il fatto che un simile cimitero sorga proprio a ridosso di un quartiere particolarmente benestante della città.

Questo strano luogo in cui i morti non hanno lapide, né una sepoltura sicura, sembra simboleggiare lo scorrere delle cose del mondo più che un cimitero opulento, circondato da alte pareti di marmo, in cui si entra come in un austero santuario in cui il tempo si sia fermato. Holt è il cimitero dei poveri, è tenuto vivo dai poveri. Qui non ci si può permettere nemmeno l’illusione dell’eterno, e la memoria esiste solo finché vi è ancora qualcuno che ricordi.

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(Grazie, Marco!)