The Dangerous Kitchen – VII

Per tutti voi appassionati di cibi estremi, gourmet del tabù, buongustai del cattivo gusto, siamo orgogliosi di presentare oggi per la nostra rubrica culinaria un piatto annoverato fra i più raffinati della storia, che ha sempre mandato in estasi assoluta i suoi sostenitori… e fatto inorridire chi lo ritiene una pura e crudele barbarie.

La ricetta di oggi viene d’oltralpe, dal paese che più di tutti ha reso la cucina un’arte vera e propria. Siete pronti ad assaggiare la più squisita prelibatezza della haute cuisine francese?


L’ortolano è un uccellino di circa 16 centimetri di lunghezza, per un peso medio di 20-25 grammi, dal bel piumaggio multicolore: verde sulla testa, bruno sulla parte superiore e sulle ali, giallo sulla pancia. Si nutre di semi e bacche, ed è diffuso in tutta Europa – anche se in Francia è ormai una specie protetta; per secoli, infatti, è finito sul piatto dei più esigenti amanti della cucina.

Gli uccelli di piccola taglia vengono consumati sulle tavole di tutta Europa fin dal Medioevo, e anche in Italia fanno parte di piatti tradizionali come il classico veneto poenta e osei, in cui allodole o tordi sono cucinati e serviti con la polenta calda. Ma la ricetta francese per degustare l’ortolano ha diversi aspetti davvero inusuali che lo rendono un piatto controverso e piuttosto rivoltante.


Innanzitutto, gli ortolani vengono cacciati e catturati vivi, per mezzo di reti. I piccoli uccelli vengono poi riposti in scatole completamente buie (alcuni raccontano di intere stanze utilizzate allo scopo, nelle quali la luce del sole non può entrare): in questo modo i pennuti sono ingannati dalla perenne oscurità, e spinti a cibarsi in continuazione delle sementi di miglio bianco che sono sparse ai loro piedi. Dopo essere stati messi così all’ingrasso per qualche settimana, i poveri uccellini sono uccisi annegandoli nell’armagnac. Questa macabra “ultima boccata” di liquore stagionato dona alla carne un tocco di sapore inconfondibile.


Gli ortolani vengono poi spennati, ma non ripuliti delle loro interiora – e questa è un’altra delle particolarità della ricetta. Cotti alla brace per 8 minuti, vengono serviti ancora interi, completi di testa (unica eccezione, le zampine, che vengono asportate).

Ma le stranezze non finiscono qui: esiste un preciso rituale da seguire per apprezzare appieno il piccolo uccellino. Quest’ultimo va infatti inserito in bocca tutto intero, in un solo boccone, partendo dalla testa o dalle terga a seconda del gusto personale. A questo punto i commensali si coprono il capo con un grande fazzoletto, e cominciano il lungo e paziente lavoro di spolpamento, tutto eseguito all’interno della bocca.


La scena è un po’ comica, un po’ inquietante, certamente assurda. Chi entrasse in quel momento potrebbe pensare di trovarsi di fronte a una setta o a un quadro surrealista: il fazzoletto in realtà serve, a quanto dice la tradizione, per non disperdere i delicati fumi dell’armagnac e consentire una concentrazione maggiore sul sapore dell’ortolano. Ma le malelingue sostengono che serva in realtà a nascondere la disgustosa vista delle bocche che succhiano la carne, rigirando gli ossicini, frantumando con i denti la piccola cassa toracica. Secondo altri ancora, il fazzoletto dissimulerebbe l’osceno pasto addirittura “agli occhi di Dio”.


Il fatto che l’ortolano non venga eviscerato prima della consumazione lo rende davvero particolare al gusto: mano a mano che ci si fa strada nelle sue carni, diverse stratificazioni di sapore arrivano alle papille. Lo strato esterno è quello del grasso, che vanta la consistenza ricca del burro salato; ma quando si liberano gli organi interni, la bocca è invasa da un bouquet di intensi sapori che ricordano il foie gras (altro piatto crudele e, per molti, tabù). Gran parte degli ossicini possono essere agevolmente masticati e inghiottiti come, per fare un paragone, le lische delle sardine.


L’ortolano è legato a un famosissimo “ultimo pasto”: quello organizzato da François Mitterand otto giorni prima di morire, assieme a trenta convitati fra gli amici e i parenti più intimi. L’ex-presidente era ormai gravemente malato e consunto, ma ebbe comunque la forza di concedersi un ultimo pasto degno di un re: dopo 50 ostriche, foie gras e cappone, il vecchio Mitterand, fazzoletto in testa, consumò ben due ortolani. L’organizzatore della luculliana cena era un certo Henri Emmanuelli, un politico che ancora oggi si schiera in difesa della caccia a questi uccelli.


In Francia cacciare, vendere o acquistare un ortolano è proibito per legge – ma è ancora consentito mangiarlo. I ristoranti lo servono quindi soltanto a porte chiuse e a una ristretta cerchia di fidati intenditori, e assolutamente senza farsi pagare.
La popolazione mondiale di questi uccelli non è attualmente in pericolo (ce ne sono a milioni), ma come dicevamo in Francia è calata di una fortissima percentuale proprio a causa della pressione venatoria: ogni anno si stima che circa 30.000 uccelli cadano nelle reti dei bracconieri.

Oggi, sul mercato nero, un ortolano può costare fino a 200 €. E, per quanto sembri incredibile, c’è sempre chi è pronto ad sborsare questa notevole cifra per comprare, ingrassare, annegare, cucinare e succhiare sotto un fazzoletto quel singolo boccone di estasi carnivora.

MEAT

Dimitri Tsykalov è un artista russo. Utilizza diverse tecniche di scultura per trasformare oggetti comuni in opere d’arte stupefacenti e metaforicamente stimolanti.

Ha cominciato costruendo alcune installazioni che ricreano completamente in legno oggetti che normalmente sono composti di altri materiali: in questo interno di una camera, ad esempio, tutto, dal cuscino alle coperte, al computer, al lavandino, al WC, ogni cosa è interamente scolpita nel legno.

In seguito, ha costruito una Porsche a grandezza naturale, ancora in legno. Le sue sono opere d’arte che ci spingono a guardare diversamente certi aspetti della realtà. Deperiscono velocemente di fronte agli occhi degli spettatori: in un certo senso, offrono delle forme vuote e biodegradabili, come se tutta la nostra tecnologia fosse votata alla distruzione. Questa Porsche non è altro che un segno, riconoscibile, ma il materiale di cui è composta ci rende visibile il suo destino ineluttabile. Basterebbe un po’ d’acqua per rovinarla completamente, e prima o poi la sua struttura si disintegrerà, distruggendo contemporaneamente il simbolo con tutti i valori che ad esso sono connessi.

Stesso discorso vale per gli organi umani in legno: sembrano fissi ed eterni, ma esibiscono anche una fragilità che conosciamo bene, anche se raramente ci soffermiamo a rifletterci.

Per rendere ancora più chiaro il concetto, Tsykalov è poi passato a scolpire teschi ricavati da vegetali: la “vita” di queste opere è ancora minore. Risulta chiaro che le sue non sono altro che moderne vanitas, destinate a ricordarci la futilità delle nostre esistenze.

Ma è con la sua ultima opera che Tsykalov ha davvero creato qualcosa di unico e impressionante. Intitolata MEAT (“carne”), la serie ci mostra i corpi nudi di diversi modelli che impugnano armi fatte di carne, indossano elmetti scolpiti a partire da bistecche e insaccati, sono imprigionati da catene di salsicce.

Queste fotografie toccano alcuni punti precisi del nostro sistema simbolico. Da una parte, ammiccano alla (con)fusione di carne e metallo che gran parte ha avuto nell’iconografia post-moderna. Dall’altra, mostrano una guerra fatta di carne e sangue, in cui l’avanzata tecnologia non appare più fredda e metallica, ma costruita con le stesse logiche del macello. Inoltre, l’utilizzo di hot-dog, hamburger e altre forme di consumo della carne, riporta tutto all’idea del cibo. La bellezza dei modelli contrasta con le macabre situazioni in cui sono coinvolti.

La rappresentazione di Tsykalov mira a mostrare l’essere umano per ciò che è veramente. Un’accozzaglia di bellezza e putridume, violenza ed estasi, bisogni animaleschi e illusioni razionalistiche. Ed è proprio sui simboli che Tsykalov lavora più efficacemente: vedere una bandiera (che potrebbe essere qualsiasi bandiera) completamente composta di carne macellata non può che far riflettere.

Tabù alimentari

L’uomo è un animale onnivoro, e può mangiare e digerire cibi di origine vegetale e animale alla stessa stregua. Eppure la maggior parte degli esseri umani consuma soltanto poche varietà di prodotti alimentari.

Alcune popolazioni si nutrono di alimenti che disgustano altre popolazioni: i tabù alimentari sono fra i più radicati, e intimamente legati al gruppo etnico di cui si fa parte. Secondo alcuni antropologi (tra cui Marvin Harris) sarebbero stati i fattori ambientali a far prediligere un certo cibo a un determinato popolo. Il tabù della carne di maiale per ebrei e musulmani nel Medioriente deriverebbe dalla difficoltà nell’allevare questo animale, che è tendenzialmente stanziale e abbisogna di ombra e acqua: permettere il consumo di carne di maiale avrebbe significato mettere in pericolo l’identità stessa della tradizione nomade.

Secondo altri antropologi (come ad esempio Steven Pinker) il tabù alimentare sarebbe alla base stessa della nostra identità. Nel primo periodo di vita di un bambino sarebbe assente la distinzione fra cibi buoni e cibi disgustosi: così, proprio nel periodo cruciale in cui si apprende a preferire dei cibi piuttosto che altri (fino ai 4 anni), i genitori escludono dalla dieta del bambino alcuni alimenti, e questo basta affinché i bambini crescano trovandoli disgustosi. La tattica, poi, si perpetua da sé: i figli, crescendo, diventano dei genitori che non danno da mangiare cibi disgustosi ai propri figli.

Nelle tribù è talmente importante questo elemento aggregativo (il pasto comunitario, le regole interne per la consumazione del cibo), che si è notato come la maggior parte dei tabù alimentari proibiscano proprio il cibo preferito dalla tribù nemica.

Oggi, nel mondo, esistono ancora fortissimi tabù alimentari. Quello che è buono e appetibile per alcuni, per altri è disgustoso e detestabile. Insetti, cavallette e lombrichi sono cibi prelibati per milioni di persone; ben quarantadue popolazioni mangiano ratti, mentre sono molte le popolazioni che non berrebbero mai un bicchiere di latte, in quanto secreto dalle ghiandole animali, come la saliva o il sudore. Per non parlare del formaggio, che altro non è se non latte andato a male. Un americano inorridisce in una nostra macelleria se gli viene proposta carne equina, e noi facciamo lo stesso di fronte a una zuppa cinese in cui galleggiano due zampe di cane. E come reagireste se in un ristorante sushi tradizionale in Giappone, vi servissero un pesce spellato e tagliuzzato, ma ancora vivo?

Praticamente tutti gli animali sono commestibili e vengono mangiati, in tutto il mondo.

L’entomofagia (il mangiare insetti) è fra le pratiche globalmente più diffuse. Questo signore ha provato ad importare questa tradizione culinaria “adattandola” ai gusti occidentali, proponendo un menu interamente a base di insetti:

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In tutto il sud-est asiatico, invece, uno dei cibi più apprezzati è il balut: si tratta di uova di anatra fecondate, che contengono cioè l’embrione quasi completamente formato del pulcino: lo stadio di sviluppo al quale sia preferibile consumare questa prelibatezza è strettamente questione di gusti personali.

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In Papua Nuova Guinea i pipistrelli si fanno arrosto:

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Anche da noi sono considerate commestibili le cosce della rana; ma ne mangereste il cuore ancora pulsante?

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Forse l’unico tabù fondamentale condiviso dalla maggior parte delle popolazioni al mondo è il divieto di mangiare carne umana; eppure perfino il cannibalismo è stato accettato, in certe culture, nonostante fosse regolato da precise condizioni, e rigidamente motivato all’interno di un determinato quadro simbolico e tradizionale.