Vermi cannibali e molecole di memoria

A volte, in questo mondo, la meraviglia può nascondersi nei luoghi e negli esseri più umili e, all’apparenza, insignificanti.
Le planarie sono dei minuscoli e piatti vermiciattoli, lunghi appena qualche centimetro, del colore del fango e che nel fango trascorrono la loro esistenza, nell’alveo di stagni e acquitrini.

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Eppure questi platelminti hanno una capacità che ha del miracoloso: se li tagliate in due, la testa è capace di rigenerare l’intero corpo. E fin qui non ci sarebbe nulla di così straordinario – molti animali sono in grado di far “ricrescere” le parti del proprio corpo che vengono a mancare e alcuni (come il granchio, la salamandra, la stella marina o la lucertola) arrivano addirittura all’autotomia, vale a dire ad amputarsi volontariamente un’appendice per sfuggire a un predatore. Quello che rende le planarie davvero straordinarie è che non soltanto la testa può rigenerare l’intero corpo, ma anche la coda riesce a farsi spuntare una nuova testa.
In effetti, esistono planarie sessuate e planarie asessuate; se quelle sessuate copulano e producono uova, le loro compagne asessuate si riproducono perdendo la coda, che diviene un secondo individuo con lo stesso patrimonio genetico del “genitore”.
E questo è solo l’inizio.

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Se sezionate una planaria longitudinalmente passando il vostro bisturi fra i due occhi, dove dovrebbe stare il cervello, fino alla fine della coda, le due metà si rigenereranno comunque: la parte sinistra farà ricrescere la parte destra mancante, e viceversa.
Poniamo che siate davvero accecati dall’odio per questo animaletto, e che decidiate di tagliarlo in 100 pezzi, certi finalmente di averlo fatto fuori; nel giro di qualche settimana le “fettine” avranno dato vita a 100 vermi perfettamente formati. Questo è stato verificato perfino tagliando una planaria in 279 pezzi.
E per finire, se dividete a metà la testa di una planaria, lasciandole però intatto il corpo, le due parti attiveranno comunque il processo di ricrescita della metà “mancante”, e in poco tempo vi ritroverete con una planaria a due teste.

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Ovviamente il segreto sta nella semplicità della struttura fisica di questi animali: l’apparato digerente è rudimentale, lo scambio fra ossigeno e anidride carbonica avviene per diffusione, senza bisogno di organi particolari e, più che di un vero e proprio cervello, essi sono dotati di un piccolo ganglio, due lobi di tessuto nervoso che formano una massa in cui è stata riscontrata attività elettrica simile a quella di altri animali. Due nervi principali corrono giù su entrambi i fianchi della planaria fino alla coda, e altri più piccoli li uniscono trasversalmente, come pioli di una scala.

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L’attività rigenerativa avviene per epimorfosi: questo significa che sulla ferita cominciano a proliferare delle cellule indifferenziate che, una volta raggiunto un numero adeguato, si differenziano e cominciano a creare i tessuti mancanti.

McConnell, James V

Se tutte queste stranezze non fossero già abbastanza, ecco entrare in scena il professor James V. McConnell, biologo ed etologo, personalità eccentrica con uno spiccato gusto per la provocazione. Lo studioso nel 1955 cominciò i suoi esperimenti con le planarie, e scoprì di poter condizionare il loro comportamento proprio come Pavlov con il suo famoso cane. Sottopose i vermi a questo trattamento: prima accendeva sul loro acquario una forte luce, e poi dava loro una scossa elettrica. Le planarie, come è comprensibile, facevano l’unica cosa che potevano per proteggersi o per resistere al dolore: si accartocciavano. Luce forte, scossa, luce forte, scossa. Dopo un certo periodo McConnell provò ad accendere soltanto la luce; gli animali si accartocciarono, in attesa di una scossa che non sarebbe arrivata.
McConnell dimostrò quindi che le planarie avevano una memoria: quelle già condizionate in precedenza avevano bisogno di meno tempo, e meno scosse, per ricordarsi il significato della luce, rispetto alle loro ignare colleghe appena entrate nell’acquario.
A partire da questa constatazione, McConnell cominciò i bizzarri esperimenti per cui ancora oggi – nonostante successive, più prestigiose ricerche – viene ricordato.

Assieme al suo team di worm runners (così aveva battezzato i suoi collaboratori) condizionò delle planarie, poi le divise a metà. Voleva accertarsi se, una volta rigenerate in due individui separati, si ricordassero ancora il loro condizionamento, e le sottopose quindi al suo test luce/scossa. La planaria formatasi a partire dalla testa, che quindi aveva mantenuto il suo cervello, si ricordava ancora perfettamente il pericolo associato alla luce, e si accartocciava appena questa veniva accesa. Ma la cosa davvero incredibile era che anche la planaria “nata” dalla coda tagliata sembrava non aver minimamente perso la memoria del condizionamento.
Cosa voleva dire? Per McConnell la spiegazione era evidente: quella era la prova che la memoria dell’animale non albergava esclusivamente nel cervello, o nel sistema nervoso centrale. Ma dove, allora?

McConnell aveva una sua teoria, ma per confermarla doveva fare un passo ulteriore.
Tagliò uno dei vermi già condizionati in pezzetti piccolissimi – praticamente lo macinò – e lo diede in pasto ad altre planarie che non sapevano nulla di luci o di scosse. (Ebbene sì, questi animaletti non disdegnano affatto il cannibalismo).
Ed ecco, prodigio!, le planarie ignoranti di colpo non lo erano più. Avevano digerito e incorporato la memoria del loro sfortunato compagno.

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Secondo i test successivi, infatti, i vermi cannibali che si erano cibati della planaria “addestrata” apprendevano molto più in fretta a reagire al riflesso condizionato. La memoria, concluse McConnell, era dunque un fenomeno chimico: dato che l’RNA codifica informazioni, e dato che le cellule viventi producono e modificano l’RNA in reazione ad eventi esterni, era forse così che all’interno dei neuroni venivano registrati e conservati i ricordi: Memory RNA, battezzò McConnell la molecola che ipoteticamente potrebbe essere responsabile di tutte le nostre memorie.

Le scoperte di McConnell causarono, comprensibilmente, un piccolo vespaio. Dal 1962 fino al 1969 circa, scettici e possibilisti si accapigliarono: potevano questi risultati avere qualcosa a che vedere con il modo in cui l’apprendimento avviene nel cervello umano? I vermi avevano davvero imparato semplicemente mangiando le memorie altrui, o l’esperimento era falsato? Era possibile immaginare un futuro in cui, invece di studiare, sarebbe bastata una pillola per diventare edotti in qualsiasi materia?

Di colpo, tutti si misero a tagliare vermi in laboratorio. Nonostante la buona volontà, però, questi eclatanti risultati non vennero mai replicati con precisione. Già difficile da digerire in partenza, la teoria di McConnell a poco a poco perse di risonanza, fino a diventare poco più di una barzelletta.

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A dire la verità, l’atteggiamento poco ortodosso e irriverente di McConnell non aiutò. Secondo lui, per essere scienziati seri non serviva assolutamente essere anche solenni e pomposi.
Nel suo Journal of Biological Psychology, il professore spesso amava mischiare le carte, e pubblicava le sue scoperte “serie” insieme ad articoli satirici. I lettori finirono per essere troppo confusi, quindi McConnell decise di stampare i testi scientifici su un lato della rivista, e quelli comici sul retro, sottosopra: da una parte si leggeva il Journal of Biological Psychology, e girando i fogli ci si poteva intrattenere con il più faceto Worm Runner’s Digest. McConnell si divertiva come un matto quando qualche libreria rispediva indietro le copie della strana rivista, segnalando un errore nella rilegatura.
Alla fine i contributi satirici del Worm Runner’s Digest risultarono così numerosi che McConnell riuscì a raccoglierli in ben due libri: The Worm Re-Turns (1965) e Science, Sex and Sacred Cows (1971).

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La sede della memoria, oggi lo sappiamo con relativa certezza, è la corteccia cerebrale, anche se ippocampo e amigdala giocano sicuramente ruoli importanti nella “registrazione” del ricordo. Eppure i meccanismi molecolari che regolano la formazione e il mantenimento della memoria, così come la sua “morte” nel momento in cui dimentichiamo qualcosa, sono ancora nebulosi.

Nel 2001 alcuni ricercatori intenti a studiare l’interferenza dell’RNA (uno degli argomenti più “caldi” nella biologia molecolare odierna) hanno sollevato il dubbio che McConnell, almeno in parte, fosse sulla strada giusta nell’insistere affinché venissero studiate le basi chimiche della memoria. Peccato che il diretto interessato non possa assistere a questo ritorno di fiamma delle sue teorie.
Nella seconda parte della sua carriera accademica di professore emerito, James McConnell si dedicò alla redazione di un fondamentale libro di testo di psicologia generale (Understandig Human Behavior), si occupò di psicologia sociale e di sensorialità nei soggetti autistici, e svolse ricerche sulla percezione subliminale. Nel 1985 fu vittima di Unabomber, e perse temporaneamente l’udito quando il suo assistente aprì un manoscritto esplosivo. Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, per dedicarsi alle sue orchidee, morì infine nel 1990.

E i vermi di tutto il mondo sospirarono di sollievo.

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Piccioni superstiziosi

Articolo a cura della nostra guestblogger Veronica Pagnani

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Perché siamo convinti che compiere un determinato gesto possa propiziare l’avverarsi di un evento favorevole? Perché, nonostante la qualifica di “esseri viventi più intelligenti ed evoluti del pianeta”, gli uomini continuano ad essere superstiziosi? E ancora, sono solo gli esseri umani ad essere superstiziosi o è questa una caratteristica che ci accomuna anche con gli animali?

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Sono queste le domande che B.F. Skinner, psicologo americano vissuto nel secolo scorso, si pose per gran parte della sua vita, influenzando i suoi studi che, in breve tempo, diedero esiti straordinari.

Le opere di Skinner sono tutt’oggi largamente valutate dalla comunità scientifica in quanto riportano un concetto mai espresso prima di allora: il condizionamento operante.

Il concetto di condizionamento operante è di per sé molto semplice ed implica il fatto che un animale riesca a rendersi conto che, per qualche ragione, ad una sua particolare azione seguirà un evento. Se l’evento atteso si verifica, ecco che l’animale si sentirà gratificato e sarà portato a ripetere all’occorrenza quella determinata azione. Ma come riuscì Skinner a rendere valida una tesi del genere?

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Anzitutto, progettò una gabbia (conosciuta oggi come Skinner’s box), la cui peculiarità era il possedere una leva che, una volta premuta, faceva scattare un meccanismo dispensatore di cibo. Gli animali, che venivano intrappolati all’interno della Skinner’s box , imparavano ben presto il “trucchetto” per ottenere cibo e lo utilizzavano ogni qual volta ne avessero avuto bisogno.

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Nel 1948, però, Skinner decise di rendere più interessante l’esperimento, immettendo nella gabbia un solo piccione e collegando il dispensatore di cibo non più ad una leva bensì ad un timer.

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In un primo momento il piccione sembrò non curarsi particolarmente del meccanismo che ospitava la sua gabbia e che dispensava il cibo a intervalli casuali; col passare del tempo però, cominciò a manifestare comportamenti alquanto bizzarri. Skinner notò che il piccione, con insistenza, ripeteva il movimento che aveva fatto un attimo prima di ottenere il cibo. Anche altri piccioni, sottoposti in gabbie diverse allo stesso esperimento, cominciarono a comportarsi allo stesso modo: chi girava su se stesso, chi allungava il collo verso un angolo della gabbia, un altro piegava su la testa con uno scatto, un altro ancora sembrava spazzolare con il becco l’aria sopra il fondo della gabbia e altri due dondolavano la testa. Un’altra stranezza era data dal fatto che i piccioni perseveravano nel comportamento nonostante questi movimenti, per la maggior parte delle volte, non portassero ad alcun risultato. Si trattava effettivamente di un comportamento superstizioso, osservato per la prima volta negli animali. L’esperimento, pubblicato sul celeberrimo Journal of Experimental Psychology, viene comunemente ricordato come “Superstizione del piccione”.

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In verità, nonostante gli esiti straordinari dell’esperimento, Skinner aveva solo dimostrato che i piccioni possono maturare degli atteggiamenti superstiziosi, basati su una falsa correlazione; ma va anche ricordato che i piccioni hanno un cervello molto diverso da quello degli uomini. Il nuovo quesito a questo punto era: può un animale simile all’uomo sviluppare comportamenti superstiziosi?

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Purtroppo Skinner non visse così a lungo da portare a termine anche questo esperimento; se ne occuparono due ricercatori dell’Università dell’Oklahoma, L. D. Devenport e F. A. Holloway, i quali decisero di prendere come cavie dei ratti.

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Al pari dei piccioni, anche i ratti vennero immessi nelle Skinner’s box, ma al contrario dei primi, questi non si autoingannarono e continuarono a comportarsi normalmente. Devenport e Holloway scoprirono le motivazioni di tale risultato. Nel cervello dei ratti, così come in quello degli uomini, vi è un’area chiamata “ippocampo”, la quale aiuterebbe a cogliere le vere relazioni di causa-effetto. Ad avvalorare maggiormente questa tesi fu un secondo esperimento, in cui i ratti vennero dapprima danneggiati nell’ippocampo per mezzo di elettrodi, per poi essere nuovamente immessi nelle Skinner’s box. In questo caso, proprio come era successo ai piccioni, i ratti cominciarono a compiere dei gesti arbitrariamente associati alla somministrazione di cibo.

Devenport e Holloway conclusero che, molto probabilmente, il processo evolutivo ha fatto sì che molti mammiferi sviluppassero l’ippocampo proprio come una sorta di “protezione” verso gli inganni del mondo esterno.

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A questo punto gli studi, e gli esperimenti, potevano dirsi conclusi con successo. O forse no. Si sa, la curiosità umana non ha, e non avrà mai (si spera), fine. E fu proprio la curiosità e l’amore per il sapere a spingere Koichi Ono, dell’Università Konazawa di Tokio, a costruire una Skinner’s box, dotata di tre leve, in cui inserire non più cavie animali bensì esseri umani, in modo da sciogliere ogni dubbio riguardante la validità delle precedenti teorie formulate.

Anche in questo caso, all’interno della Skinner’s box, notiamo la presenza di un “meccanismo ingannevole”, ovvero un contatore collegato ad un timer. Agli studenti che, volontariamente, decisero di sottoporsi all’esperimento non venne detto nulla, se non che il loro obiettivo era di fare “più punti possibili”. Nell’arco di 40 minuti, una parte degli studenti pensò che l’unico metodo per fare punti doveva essere collegato alle leve, le quali vennero tirate in sequenze differenti, in modo da provare quale fosse la mossa esatta. Altri studenti, invece, capirono che le leve non avevano nulla a che fare con il contatore e, nella speranza di fare punti, cominciarono ad assumere gli atteggiamenti più stravaganti, come arrampicarsi sul tavolo, picchiare sul muro, sul contatore o saltare ripetutamente fino a toccare il soffitto.

L’esperimento di Ono, così come quello dei suoi colleghi, aveva dimostrato che anche l’uomo, nonostante la protezione dell’ippocampo, può assumere atteggiamenti superstiziosi.

Tutto ciò è veramente incredibile. Ancor più incredibile però, è l’ipotesi formulata da Danilo Mainardi, la quale sintetizza tutti i risultati raccolti e precedentemente esposti. Secondo Mainardi, il pensiero razionale ha sì portato l’uomo ad indagare per capire le cose della natura, ma al tempo stesso l’ha messo di fronte alla caducità delle cose terrene. L’irrazionalità, dunque, non dev’essere per forza stigmatizzata, anzi, nella giusta misura, può essere un modo per affrontare l’insensatezza delle nostre vite. Il gatto nero che attraversa la strada non ha davvero nulla a che fare con la vostra fortuna: ma, se davvero vi conforta, fate pure tutti i vostri scongiuri preferiti.

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Little Albert

Abbiamo già parlato di quanto la medicina di inizio ‘900 andasse poco per il sottile quando si trattava di fare esperimenti su animali o sugli uomini stessi. Basta consultare, per una breve storia degli esperimenti umani, questa pagina (in inglese) che riporta le date essenziali della ricerca medico-scientifica condotta in maniera poco etica. Il sito ricorda che, dall’inoculazione di varie piaghe o malattie infettive (senza il consenso del paziente) fino agli esperimenti biochimici di massa, i ricercatori hanno spesso dimenticato il precetto di Ippocrate Primum non nocere.

Ma anche la psicologia, in quegli anni, non scherzava. Uno degli esperimenti più celebri, e divenuto presto un classico della psicologia, fu quello portato avanti da John B. Watson assieme alla sua collega Rosalie Rayner, e conosciuto con il nome Little Albert.

John Watson è il padre del comportamentismo, cioè quella branca della psicologia che nasceva dallo studio dell’etologia animale per applicarla all’uomo, nella convinzione che il comportamento fosse l’unico dato verificabile scientificamente. Ricordate il celebre cane di Pavlov, che sbavava non appena sentiva una campanella? Watson era convinto che il sistema di ricompensa e punizione fosse presente anche nell’uomo, o almeno nel bambino. Si spinse addirittura oltre, pensando di poter “programmare” la personalità di un individuo agendo attivamente sul suo sviluppo infantile. I suoi studi cercavano di comprendere come l’essere umano si sensibilizzasse a certi avvenimenti o a certe cose durante la precoce fase dei primi mesi di età. E siccome, a sentire lui, i suoi risultati gli davano ragione, arrivò ad affermare: “Datemi una dozzina di bambini sani e farò di ognuno uno specialista a piacere, un avvocato, un medico, ecc. a prescindere dal suo talento, dalle sue inclinazioni, tendenze, capacità, vocazioni e razza”. Negli anni ’20 pensare di poter programmare il futuro del proprio bambino sembrava un’utopia. Dopo il nazismo, l’opinione comune avrebbe cambiato rotta, e visto in simili idee di controllo un’offesa alla libertà individuale. Ma i campi di Buchenwald erano ancora distanti.

L’esperimento che rese celebre Watson fu compiuto durante i mesi a cavallo tra il 1919 e il 1920. Little Albert era un bambino sano di poco più di nove mesi di età. Nella prima fase dell’esperimento (i primi due mesi), Watson e Rayner misero in contatto il bambino con, nell’ordine: una cavia bianca, un coniglio, un cane, una scimmia, maschere con e senza barba, batuffoli di cotone, giornali in fiamme, ecc. Il piccolino non mostrava paura nei confronti di alcuno di questi oggetti. Ma Watson era intenzionato a cambiare le cose: nel giro di poche settimane, avrebbe forgiato per il piccolo Albert una bella fobia tutta nuova.

Quando l’esperimento vero e proprio iniziò c’erano alcune sorprese pronte per Albert, che aveva allora 11 mesi e 10 giorni. I ricercatori gli riproposero il contatto ravvicinato con uno degli stessi simpatici animaletti con cui aveva imparato a giocare: la cavia da laboratorio. Ma ora, ogni volta che tendeva una mano per accarezzare il topolino, i ricercatori battevano con un martello una barra d’acciaio posta dietro il bambino, provocando un forte e spaventoso rumore – BANG! Toccava con l’indice il topolino – BANG! Cercava di raggiungere il topolino – BANG! Ci riprovava – BANG!

Il piccolo Albert cominciò a piangere, a cercare di scappare, ad allontanare con i piedi l’animale non appena lo vedeva. Era stato efficacemente programmato per temere i topi. I ricercatori volevano però capire se si fosse instaurato un transfert che provocava l’avversione verso oggetti con qualità similari. Ed era successo proprio questo. Dopo 17 giorni la sua fobia si estese al cotone, alle coperte, alle pelliccie. Infine, anche la sola vista di una maschera da Babbo Natale con la barba lo faceva piangere a dirotto. L’insegnamento era stato recepito: le cose con il pelo sono spaventose e spiacevoli perché fanno BANG.

Dopo un mese di esperimenti, proprio quando il professor Watson voleva cominciare le sue prove di de-programmazione, riportando il bambino a una risposta normale, la madre lo portò via e più nulla si seppe di lui. Già, la madre. Il mistero intorno a chi fosse realmente Little Albert e che razza di vita abbia avuto dopo questo esperimento, e se la madre fosse consenziente, è rimasto oscuro per anni. Le leggende si sprecavano. Finalmente, dopo un’accurata ricerca, sembra che la verità sia venuta a galla. Little Albert era figlio di una balia che allattava e curava i bambini invalidi alla Phipps Clinic presso la Johns Hopkins University di Baltimora dove Watson e Rayner conducevano l’esperimento. Era a conoscenza di cosa stavano facendo al suo bambino, e probabilmente lo portò via con sé quando vide l’effetto che la ricerca aveva prodotto sul suo neonato.

L’esperimento, è doveroso segnalarlo, divenne davvero un classico e aprì la strada per nuove ricerche (con il senno di poi, meno irresponsabili) che continuano tutt’oggi. In quegli anni nessuno sembrò preoccuparsi più di tanto di Albert, ma piuttosto degli incredibili e fino ad allora inediti risultati della ricerca. Non possiamo però sapere se la vita più “normale” che lo attendeva avrebbe potuto sanare le ferite aperte dall’esperimento nel piccolo Albert, se con il tempo sarebbe forse guarito, perché nel 1925 il bambino morì di idrocefalia, sviluppatasi tre anni prima.

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L’articolo originale di Watson & Rayner è consultabile qui. E qui trovate la pagina di Wikipedia sull’esperimento.