A Macabre Monastery

Article by guestblogger Lady Decay

This is the account of a peculiar exploration, different from any other abandonded places I had the chance to visit: this place, besides being fascinating, also had a macabre and mysterious twist.

It was November, 2016. We were venturing — my father, my sister, two friends and I — towards an ex convent, which had been abandoned many years before.
The air was icy-cold. Our objective stood next to a public, still operational structure: the cemetery.
The thorny briers were dead and not very high, so it was simple for us to cut through the vegetation towards the side of the convent that had the only access route to the building, a window.
With a certain difficulty, one by one we all managed to enter the structure thanks to a crooked tree, which stood right next to the small window and which we used as ladder.

Once we caught our breath, and shook the dust off our coats, we realized we just got lost in time. That place seemed to have frozen right in the middle of its vital cycle.

The courtyard was almost entirely engulfed in vines and vegetation, and we had to be very careful around the porch, with its tired, unstable pillars.

Two 19th-Century hearses dominated one side of the courtyard, worn out but still keeping all their magnificence: the wood was dusty and rotten, but we could still see the cloth ornaments dangling from the corners of the carriage; once purple, or dark green, they now had an indefinable color, one that perhaps dosen’t even exist.

We went up a flight of stairs and headed towards a series of empty chambers, the cells where the Friars once lived; some still have their number carved in marble beside the door.

Climbing down again, we stumbled upon a sort of “office” where we were greeted by the real masters of the house – two statues of saints who seemed to welcome and admonish us at the same time.

As we were taking some pictures, we peeked inside the drawers filled with documents and papers going back to the last years of the 18th Century, so old that we were afraid of spoiling them just by looking.

We got back out in the courtyard to enjoy a thin November sun. We were still near the cemetery, which was open to the public, so we had to move carefully and most silently, when all of a sudden we came upon a macabre find: several coffins were lying on the wet grass, some partly open and others with their lid completely off. Just one of them was still sealed.

My friends prefer to step back, but me and my sister could not resist our curiosity and started snooping around. We noted some bags next to the coffins, on which a printed warning read: ‘exhumation organic material‘.

A vague stench lingered in the air, but not too annoying: from this, and from the coffins’ antiquated style, we speculated these exhumations could not be very recent. Those caskets looked like they had been lying there for quite a long time.

And today, a year later, I wonder if they’re still abandoned in the grass, next to that magical ghost convent…

https://www.youtube.com/watch?v=hv_1DVqqQoE

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Morti sfrattati

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Le tombe, in Guatemala, sono spesso colorate con vivaci colori: entrare in un camposanto può perfino sembrare un momento gioioso. Eppure il cimitero municipale della Città del Guatemala è diventato tristemente celebre per la severa politica di gestione dei loculi che vi viene applicata.

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Nella foto qui sopra, un incaricato cammina nella zona del cimitero conosciuta come “La Verbena”. Le tombe marcate in rosso sono quelle per le quali i parenti del defunto non hanno saldato la tassa dovuta. Secondo le regole del cimitero, infatti, passati sei anni dall’inumazione i parenti – avvertiti tramite telegramma – sono tenuti a versare 180 Quetzales (all’incirca 16 €) per rinnovare il permesso per altri quattro anni.

Se non lo fanno, il loculo viene aperto, la bara distrutta e il cadavere esumato.

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Queste esumazioni si risolvono spesso in uno spettacolo, visto che vengono talvolta effettuate anche durante gli orari di apertura del cimitero. In sei anni, poi, può capitare che il corpo del defunto non sia ancora ridotto alle ossa: ecco quindi che gli operatori si aggirano per i vialetti con il loro carico di mummie.

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Le spoglie vengono, molto poco cerimoniosamente, gettate in un pozzo che funge da fossa comune.

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La legge italiana stabilisce un tempo minimo di sepoltura, prima di un’eventuale esumazione, di almeno dieci anni. In seguito i resti vengono tumulati in una celletta, cremati oppure consegnati alle famiglie per essere sepolti privatamente.
La prassi adottata dal cimitero di Guatemala City ai nostri occhi potrebbe risultare insensibile e troppo sbrigativa; ma considerando che la città è la più grande metropoli dell’America Centrale e conta una popolazione urbana che è quasi cinque volte quella di Milano, diviene comprensibile quanto ogni spazio sia assolutamente prezioso. Se non si paga l’affitto, è inevitabile venire sfrattati – anche da morti.

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Le esequie dei Toraja

Sulawesi è un’isola della Repubblica Indonesiana, situata ad est del Borneo e a sud delle Filippine. Nella provincia meridionale dell’isola, sulle montagne, vivono i Toraja, etnia indigena di circa 650.000 persone. I Toraja sono famosi per le loro abitazioni tradizionali a forma di palafitta e dal tetto allungato, chiamate tongkonan, e per le colorate fantasie geometriche con cui intagliano e decorano il legno.

Ma i Toraja sono noti anche per i loro complessi ed elaborati rituali funebri. Essi risalgono ad un’epoca remota, quando i Toraja seguivano ancora la loro religione politeistica tradizionale, chiamata aluk (“la Via”, un sistema di legge, fede e consuetudine); quest’ultima, con il tempo e a causa della lunga guerra contro i musulmani, è oggi divenuta un miscuglio di cristianesimo ed animismo.
Sebbene molti dei rituali “della vita”, cioè quelli propiziatori e purificatori, siano man mano stati abbandonati, le cerimonie “della morte” sono rimaste pressoché invariate.

Per i Toraja, la morte di un membro della famiglia è un evento di fondamentale importanza, e le celebrazioni funebri sono lunghe, complesse ed estremamente dispendiose, tanto da essere probabilmente il principale momento di aggregazione sociale per l’intera popolazione. Più il morto era potente o ricco, più le cerimonie sono fastose: se si tratta di un nobile, il funerale può contare migliaia di partecipanti. A spese della famiglia, in un campo prescelto per i rituali vengono costruite delle tettoie e dei gazebo per ospitare il pubblico, dei depositi per il riso, e altre strutture apposite; per diversi giorni ai pianti e alle lamentazioni si alternano la musica dei flauti e la recitazione di poemi e canzoni in onore del defunto.

Il momento culminante è il sacrificio degli animali – maiali, bufali, polli: ancora una volta, il numero varia a seconda dell’influenza sociale del morto. La lama del machete può abbattersi anche su un centinaio di animali. Particolarmente importanti sono però i bufali d’acqua: oltre ad essere le bestie più costose, sono quelle che assicureranno al morto l’arrivo più celere al Puya, la terra delle anime. Le loro carcasse vengono lasciate in fila sul prato, in attesa che il loro “proprietario” sia partito per il suo viaggio, alla conclusione dei funerali. In seguito, la loro carne verrà spartita fra gli ospiti, mangiata o venduta al mercato.

Viste le enormi spese da sostenere, la famiglia impiega spesso anche anni a cercare i fondi necessari per la cerimonia. Di conseguenza, i funerali si svolgono molto tempo dopo il decesso; in questo periodo di attesa, l’anima del morto è considerata ancora presente a tutti gli effetti e si aggira per il villaggio. Quando finalmente i funerali si sono compiuti, il suo corpo viene seppellito in un cimitero scavato all’interno di una parete di roccia, e un’effigie con le sue fattezze (chiamata tau tau) viene posta a guardia della tomba.

Se invece il morto era meno abbiente, la bara viene fissata proprio sul ciglio della parete, o in alcuni casi sospesa tramite delle funi. I sarcofagi rimarranno appesi fino a quando i sostegni non marciranno, facendoli crollare.

Anche i bambini vengono tumulati in questo modo, ma talvolta è riservato loro un posto in particolari loculi scavati all’interno di grandi tronchi d’albero.

Con questa prima sepoltura, però, il rapporto dei Toraja con i loro morti non è affatto finito. Ogni anno, in agosto, si svolge la cerimonia chiamata Ma’Nene, durante la quale i cadaveri dei defunti vengono riesumati.

I corpi mummificati vengono lavati, pettinati e vestiti in abiti nuovi dai familiari; nel caso fossero rimaste soltanto le ossa, invece, queste vengono comunque lavate e avvolte in stoffe pregiate.

Una volta che i rituali di cosmesi sul cadavere sono completati, i morti vengono fatti “camminare”, tenendoli ritti, e portati in giro per il villaggio. Questa parata, al di là delle valenze religiose, si colora del vero e proprio orgoglio di esibire i propri antenati: la gente li ammira, li tocca, e si scatta delle fotografie assieme a loro. Il Ma’Nene è il segno dell’amore dei parenti per il morto che, in effetti, non potrebbe essere più “vivo” di così.

Alla fine di questa processione d’onore, la salma viene seppellita per la seconda volta, nel suo luogo di ultimo riposo. Completato finalmente il passaggio del morto nell’aldilà, viene così sancita la sua appartenenza agli antenati, ogni sua ira è scongiurata, ed egli diviene una figura esclusivamente positiva, alla quale i discendenti potranno permettersi di chiedere protezione e consiglio.

Il rito del Ma’Nene può sembrare inusuale ed esotico ai nostri occhi odierni, abituati all’occultamento della morte e della salma, ma non è esattamente così: anche in Italia la riesumazione e l’affettuosa pulitura del cadavere fa parte della cultura tradizionale, come abbiamo spiegato in questo articolo.

Molte delle foto che trovate in questo post sono state scattate dall’amico Paul Koudounaris, il cui spettacolare libro fotografico Memento Mori dà conto dei suoi viaggi nei cinque continenti alla ricerca dei costumi funerari più particolari.

(Grazie, Gianluca!)