Kapala

I kapala (in sanscrito, “teschio”) sono coppe rituali caratteristiche del tantrismo di matrice induista o buddista, utilizzate in diversi rituali sacri, e ricavate normalmente dalla calotta cranica di un teschio umano.

Tipiche del tantrismo tibetano, quello più specificatamente magico e sciamanico, queste coppe sono spesso scolpite in bassorilievo con figure sacre (soprattutto Kali la dea dell’eterna energia, Shiva il distruttore e creatore, principio primo di tutte le cose, e Ganesha colui che rimuove gli ostacoli), e talvolta montate con elaborati orpelli e abbellimenti in metallo e pietre preziose.

Gli utilizzi rituali di queste coppe sono molteplici: vengono impiegate nei monasteri tibetani come piatti di offerta di libagioni per gli dèi – pane o dolci a forma di occhi, lingue, orecchie – come oggetti di meditazione, o per iniziazioni esoteriche che prevedono che dai kapala si beva sangue o vino. A seconda di cosa contengono, le coppe vengono chiamate con differenti appellativi.

Gli dèi tantrici vengono talvolta rappresentati mentre reggono dei kapala nelle mani, o bevono il sangue da simili coppe. Esistono kapala ricavati da teschi di scimmie o di capre, che come quelli umani debbono essere consacrati prima che si possano utilizzare per scopi religiosi.

L’antica tradizione dei kapala è vista spesso come un retaggio di antichi sacrifici umani. Quello che ne resta al giorno d’oggi è una strana, macabra ma affascinante forma d’arte e di scultura, una sorta di memento mori ritualizzato, che dona a questi oggetti un alone di mistero e ci riconnette al senso più vero e ineluttabile del sacro.

Il Tempio delle Torture

Wat Phai Rong Wua.

Se visitate la Thailandia, ricordatevi questo nome. Si tratta di un luogo sacro, unico e assolutamente weird, almeno agli occhi di un occidentale. Tempio buddista, mèta annuale di migliaia di famiglie, è celebre per ospitare la più grande scultura metallica del Buddha. Ma non è questo che ci interessa. È famoso anche per il suo Palazzo delle Cento Spire, ma nemmeno questo ci interessa. Quello che segnaliamo qui sono le dozzine di figure e complessi statuari che descrivono torture e sevizie riservate dai demoni dell’inferno alle anime in pena.

Infilzate in faccia, o intrappolate nelle fauci di orrendi mostri, con le interiora esposte, trafitte da spade e lance, queste sculture lasciano ben poco all’immaginazione: se non diciamo le preghierine alla sera, non ce la passeremo tanto bene nell’aldilà. Questo macabro e violentissimo “parco di attrazioni” ha per i fedeli un valore educativo. È una visualizzazione grafica e figurativa della sofferenza e dell’inferno.

Certo, c’è da dire che il rapporto dei thailandesi con la morte è meno travagliato del nostro; eppure, per quanto a prima vista il giardino delle torture di Wat Phai Rong Wua possa sembrare una soluzione estrema per colpire la fantasia dell’uomo illetterato, ricordiamoci che anche le nostre chiese abbondano di dipinti e allegorie non meno violente o macabre. Ormai abituati all’arte del Novecento, che si è man mano astratta dal bisogno di veicolare o avere un significato, ci dimentichiamo facilmente del ruolo avuto anche nella nostra storia dell’arte figurativa: quella di educare le masse, di proporsi come libro illustrato, e di servire quindi alla formazione di un immaginario anche per quanto riguarda i mondi a venire.

Scoperto via Oddity Central.