Bizzarro Bazar Web Series: Episode 3

In the 3rd episode of the Bizzarro Bazar Web Series we talk about some scientists who tried to hybridize monkeys with humans, about an incredible raincoat made of intestines, and about the Holy Foreskin of Jesus Christ.
[Be sure to turn on English subtitles.]

If you like this episode be sure to subscribe to the channel, and most of all spread the word. Enjoy!

Written & Hosted by Ivan Cenzi
Directed by Francesco Erba
Produced by Ivan Cenzi, Francesco Erba, Theatrum Mundi & Onda Videoproduzioni

The mysterious artist Pierre Brassau

In 1964 the Gallerie Christinae in Göteborg, Sweden, held an exhibition of young avantgarde painters.
Among the works of these promising artists from Italy, Austria, Denmark, England and Sweden, were also four abstract paintings by the french Pierre Brassau. His name was completely unknown to the art scene, but his talents looked undisputable: this young man, although still a beginner, really seemed qualified to become the next Jackson Pollock — so much so that since the opening, his paintings stole the attention from all other featured works.

Journalists and art critics were almost unanimous in considering Pierre Brassau the true revelation of Gallerie Christinae’s exhibit. Rolf Anderberg, a critic for the Posten, was particularly impressed and penned an article, published the next day, in which he affirmed: “Brassau paints with powerful strokes, but also with clear determination. His brush strokes twist with furious fastidiousness. Pierre is an artist who performs with the delicacy of a ballet dancer“.

As should be expected, in spite of the general enthusiasm, there was also the usual skeptic. One critic, making a stand, defiantly declared: “only an ape could have done this“.
There will  always be somebody who must go against the mainstream. And, even if it’s hard to admit, in doing so he sometimes can be right.
Pierre Brassau, in reality, was actually a monkey. More precisely a four-year-old African chimpanzee living in the Borås Zoo.

Showing primate’s works in a modern art exhibition was Åke “Dacke” Axelsso’s idea, as he was at the time a journalist for the daily paper Göteborgs-Tidningen. The concept was not actually new: some years before, Congo the chimp  had become a celebrity because of his paintings, which fascinated Picasso, Miro and Dali (in 2005 Congo’s works were auctioned for 14.400 punds, while in the same sale a Warhol painting and a Renoir sculpture were withdrawn).
Thus Åke decided to challenge critics in this provocative way: behind the humor of the prank was not (just) the will to ridicule the art establishment, but rather the intention of raising a question that would become more and more urgent in the following years: how can we judge an abstract art piece, if it does not contain any figurative element — or if it even denies that any specific competence is needed to produce art?

Åke had convinced the zoo keeper, who was then 17 years old, to provide a chimp named Peter with brushes and canvas. In the beginning Peter had smeared the paint everywhere, except on the canvas, and even ate it: he had a particularly sweet tooth, it is said, for cobalt blue — a color which will indeed be prominently featured in his later work. Encouraged by the journalist, the primate started to really paint, and to enjoy this creative activity. Åke then selected his four best paintings to be shown at the exhibit.

Even when the true identity of mysterious Pierre Brassau was revealed, many critics stuck by their assessment, claiming the monkey’s paintings were better than all the others at the gallery. What else could they say?
The happiest person, in this little scandal, was probably Bertil Eklöt, a private collector who had bought a painting by the chimpanzee for $90 (about $7-800 today). Perhaps he just wanted to own a curious piece: but now that painting could be worth a fortune, as Pierre Brassau’s story has become a classic anecdote in art history. And one that still raises the question on whether works of art are, as Rilke put it, “of an infinite solitude, and no means of approach is so useless as criticism“.


The first international press article on Brassau appeared on Time magazine. Other info taken from this post by Museum of Hoaxes.

(Thanks, Giacomo!)

Ivanov e lo Scimpanzuomo

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Nell’Isola del Dr. Moreau, di H.G. Wells, il folle scienziato che dà il titolo al romanzo insegue il progetto di abbattere le barriere fra gli esseri umani e gli animali; con gli strumenti della vivisezione e dei trapianti, vuole sconfiggere gli istinti bestiali e trasformare tutte le belve feroci in innocui servitori dell’umanità. Certo, detto così il piano a lungo termine sembra piuttosto nebuloso, e capiamo che in realtà è la vertigine della ricerca a muovere e motivare l’allucinato Dottore:

Io mi ponevo una domanda, studiavo i metodi per ottenere una risposta e trovavo invece una nuova domanda. Era mai possibile? Voi non potete immaginare quanto ciò sia di sprone ad un ricercatore della verità e quale passione intellettuale nasca in lui. Voi non potete immaginare gli strani e indescrivibili diletti di tali smanie intellettuali.
La cosa che sta qui davanti a voi non è più un animale, una creatura, ma un problema. […] Quello che io volevo, la sola cosa che io volessi, era trovare il limite estremo della plasticità delle forme viventi.

Gli esperimenti di Moreau non hanno, nel romanzo, un lieto fine. Ma sarebbe possibile, almeno in via teorica, l’ibridazione fra l’uomo e le altre specie animali?

Fino a poco tempo fa, si credeva che i rapporti sessuali interspecifici fossero poco diffusi in natura: alcune recenti ricerche, però, sembrerebbero indicare nell’ibridazione un fattore più significativo di quanto sospettato per l’evoluzione delle specie.
Questo accade fra piccoli insetti, quando ad esempio nasce una “nuova” farfalla, risultato dell’incrocio di specie differenti, che mostra colorazioni impercettibilmente modificate rispetto ai genitori; ma ovviamente, per animali di stazza maggiore le cose sono più complicate. Se escludiamo i rari episodi di “stupro” dei rinoceronti da parte degli elefanti, o gli incroci fra grizzly e orsi polari, nei mammiferi gli accoppiamenti fra specie diverse sono stati osservati quasi esclusivamente in cattività (anche se questo non significa che non esistano in natura comportamenti sessualmente opportunistici). E in cattività, infatti, hanno visto la luce tutti quegli ibridi dai nomi bislacchi e un po’ ridicoli, che ricordano un fantasioso libro per bambini: il ligre, il tigone, il leopone, il zebrallo, e via dicendo (al riguardo, Wiki ospita una breve lista).

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Questi animali ibridi, creati o meno dall’uomo, sterili o fertili, esistono soltanto in virtù della vicinanza e compatibilità di codice genetico fra i genitori. Il mulo nasce perché cavalla e asino hanno un patrimonio cromosomico similare fra di loro, e la cosa interessante è che la differenza nel numero dei cromosomi non sembra costituire una barriera, una volta che i geni si “assomigliano” abbastanza.

Se ci guardassimo attorno con l’occhio famelico del Dr. Moreau, alla ricerca del candidato ideale da ibridare con l’essere umano, gli animali su cui il nostro sguardo si poserebbe immediatamente sarebbero i cugini primati. Gli scimpanzé, per esempio, condividono con noi il 99,4% del patrimonio genetico, tanto che c’è chi discute sull’opportunità o meno di farli rientrare nella categoria tassonomica dell’Homo. Quindi, se proprio volessimo cominciare gli esperimenti, sarebbe necessario partire dalle scimmie.

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Alla stessa conclusione, anche se a quel tempo ancora non si parlava di DNA o cromosomi, era arrivato il dottor Il’ja Ivanovič Ivanov. Biologo, ricercatore, professore ordinario dell’Università di Kharkov, Ivanov era un’autorità nel campo dell’inseminazione artificiale. All’inizio degli anni ’20 aveva dimostrato come si poteva far accoppiare un singolo stallone con 500 cavalle, portando la tecnica della riproduzione “assistita” a livelli stupefacenti per l’epoca.

Ivanov conduceva contemporaneamente altri tipi di sperimentazioni: era interessato all’idea dell’ibridazione, e fu tra i primi ad incrociare con successo ratti e topi, cavie e conigli, zebre ed asini, bisonti e mucche, e molti altri animali. La genetica muoveva allora i suoi primi passi, ma già prometteva bene, tanto che anche i vertici del PCUS si erano mostrati interessati alla creazione di nuove specie domestiche. A quanto ci racconta lo storico Kirill O. Rossianov, però, Ivanov voleva spingere i suoi esperimenti ancora oltre – desiderava essere il primo scienziato della Storia a creare, mediante inseminazione artificiale, un ibrido uomo-scimmia.

Muovendosi con circospezione, un po’ per conoscenze private e un po’ attraverso richieste ufficiali, Ivanov era riuscito a farsi accordare dall’Istituto Pasteur di Parigi il permesso di utilizzare per i suoi esperimenti la stazione primatologica di Kindia, nella Guinea Francese. Dopo circa un anno di corteggiamento dei vari burocrati del governo sovietico, nel 1925 finalmente lo scienziato riuscì a far stanziare un finanziamento alla sua ricerca da parte dell’Accademia delle Scienze dell’URSS per l’equivalente di 10.000$. Così, a marzo dell’anno successivo, Ivanov partì speranzoso per la Guinea.

Ma le cose andarono male fin dall’inizio: appena arrivato, comprese subito che il laboratorio di primatologia non ospitava alcuno scimpanzé sessualmente maturo. Non fu prima del febbraio dell’anno successivo che Ivanov riuscì a procedere con i primi tentativi di inseminazione artificiale: assistito da suo figlio, Ivanov inserì dello sperma umano nell’utero di due esemplari di scimpanzé e nel giugno del 1927 inoculò lo sperma in una terza femmina della colonia. Di chi fosse il seme umano non è dato sapere, l’unica cosa certa è che non era né di Ivanov né di suo figlio. Nessuno dei tre tentativi di inseminazione andò a buon fine, e Ivanov ripartì, probabilmente amareggiato, portandosi a Parigi tutte le scimmie che poteva (tredici esemplari).

Mentre era in Guinea, Ivanov aveva anche cercato di trovare delle volontarie umane disposte a farsi inseminare da sperma di scimmia – anche qui, stranamente, senza alcuna fortuna.
Tornato in Russia, però, non si diede per vinto e nel 1929, sempre spalleggiato dall’Accademia, ricominciò a pianificare i suoi esperimenti, riuscendo addirittura a costituire una commissione apposita con il sostegno della Società dei Biologi Materialisti. Avrebbe avuto bisogno di cinque volontarie donne: fece in tempo a reclutarne soltanto una, disposta – nel caso l’esperimento fosse andato a buon fine – a concepire un figlio metà uomo e metà scimmia. Proprio in quel momento arrivò da Parigi una terribile notizia: l’ultimo esemplare maschio fra quelli riportati in Europa dalla Guinea, un orango, era morto. Prima di poter mettere le mani su un nuovo gruppo di scimmie, avrebbe dovuto aspettare almeno un altro anno.

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Nel frattempo, però, il vento era cambiato all’interno dell’Accademia: i finanziamenti vennero revocati, Ivanov fu criticato per il suo operato e in men che non si dica, nel 1930, venne epurato dal regime stalinista. Esiliato in Kazakistan, vi morì dopo due anni.

Come dimostra la storia di Ivanov, meno di un secolo fa la barriera per questo tipo di ricerche era l’acerbo sviluppo della tecnologia; oggi, ovviamente, il principale ostacolo sarebbe di stampo etico. E così  per il momento lo “scimpanzuomo“, com’è stato battezzato, rimane ancora un’ipotesi fantascientifica.

Street Monkeys

In Jakarta, capital of Indonesia, urban overpopulation entails extreme poverty. In order to survive, people have to come up with new ways of gathering attention. When Finnish photographer Perttu Saska saw what was going on at the corner of every street, he decided to document it in a series entitled A Kind of You.

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These monkeys are exhibeted at traffic lights or in the alleys, dressed up in baby clothes and forced to wear doll’s heads that give them an unsettling, almost human appearance. They are trained to ask for charity, and sometimes to enact sad little performances like riding a small bike, or applying makeup while looking in a mirror.

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The phenomenon of topeng monyet (“masked monkeys”) is certainly not a sight to behold: various animal rights associations are fighting to save the 350 macaques that are exploited, undernourished, often abused and locked up inside minuscule cages every night, in appalling sanitary conditions. There have already been some good results, as reported on this article.

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But Saska’s photographs have the merit of raising questions not only on animal cruelty. The little monkeys, chained by their neck, with their dirty and torn clothes, with those doll heads (probably found in a dump), look like a grotesque and transfixed version of their owners: poor people, choked by the chains of misery, who live by their wits because there’s nothing else to do.

Saving the monkeys is important and righteous; it’s difficult to see how the ones on the other end of the leash will be saved.

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This is what is really disturbing in Saska’s work: the feeling we are actually looking in a mirror, at “a kind of you”.

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Here is Perttu Saska‘s official website.

(Thanks, Stefano!)

La donna scimmia

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Abbiamo più volte ricordato, su queste pagine, come le esistenze delle cosiddette “meraviglie umane” all’interno dei freakshow fossero più dignitose di quanto ci si potrebbe aspettare e che, anzi, il circo permetteva spesso a uomini e donne dotati di un fisico fuori dall’ordinario di condurre una vita normale, accettati da una comunità, di girare il mondo e di raggiungere un’indipendenza economica che non avrebbero potuto nemmeno sognare al di fuori dei baracconi itineranti. Eppure non tutte le storie dei freaks sono così positive: ce ne sono alcune che spezzano il cuore, come ad esempio quella di Julia Pastrana.

Nel suo saggio La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868), Charles Darwin la descriveva così:

Julia Pastrana, una danzatrice spagnola, era una donna rimarchevole, ma aveva una fitta barba mascolina e una fronte pelosa; […] ma quello che ci interessa è che in entrambe le mascelle, inferiore e superiore, aveva una doppia fila di denti, una dentro all’altra, di cui il Dr. Purland ottenne un calco in gesso. A causa dei denti in sovrannumero, la sua bocca sporgeva in fuori, e la sua faccia assomigliava a quella di un gorilla.

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La Pastrana in realtà non era spagnola, come riteneva Darwin, ma era nata nel 1834 in Messico, nello stato di Sinaloa. Fin da piccola il suo corpo e il suo volto erano completamente ricoperti da un folto pelo bruno. In aggiunta allo sviluppo abnorme di peluria (il termine medico odierno è irsutismo), il naso e le orecchie di Julia erano ingrossati e i suoi denti irregolari, tanto da farla assomigliare a una specie di strana scimmia. Ma la sua intelligenza non era stata scalfita da queste menomazioni: Julia sapeva cantare e danzare.

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Un giorno l’impresario Theodore Lent la scoprì in un remoto villaggio messicano e la acquistò da una donna che con tutta probabilità era sua madre. Sotto la protezione di Lent, Julia raffinò l’arte del canto e del ballo, e imparò a parlare, leggere e scrivere in tre lingue diverse. In numerosi spettacoli circensi in Nord America e in Europa, Theodore la esibì con nomi d’arte quali “la donna barbuta e pelosa”, la “donna-orso”, e “l’anello mancante”.

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La fece esaminare da diversi medici, la cui diagnosi – letta al giorno d’oggi – ci lascia piuttosto interdetti. Secondo il dottor Alexander B. Mott, Julia era sicuramente “il risultato di un accoppiamento fra un uomo e un orango-tango”. Secondo un altro medico, era appartenente a una specie “differente” da quella umana. Certo, vi furono anche medici che riconobbero subito che Julia era semplicemente una “donna indiana messicana deforme”, ma a costoro non venne dato molto credito: per lo show-business, era essenziale mantenere viva la leggenda di una autentica donna-scimmia.

Per Theodore Lent, il manager di Julia Pastrana, gli affari andavano a gonfie vele: gli ingaggi si susseguivano con profitti sempre maggiori. A poco a poco, egli divenne geloso, e sospettoso che la sua miniera d’oro potesse venirgli sottratta. Decise quindi che c’era un solo modo per mantenere la donna-scimmia legata a sé per sempre.

Un bel giorno, si dichiarò a Julia e le chiese di sposarlo. I due convolarono a nozze, e pare che il giorno del matrimonio Julia abbia dichiarato: “Lui mi ama per quello che sono, soltanto per quello che sono”. Forse è ingiusto giudicare questa unione in maniera negativa, senza elementi, a più di un secolo di distanza; probabilmente Lent fu persino un marito premuroso. Ma la piega che presero le cose più tardi sembra supportare l’idea che egli avesse in mente qualcosa di diverso dal puro amore.

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Nel Marzo del 1860, infatti, Julia e Theodore si trovavano a Mosca per un tour. La donna era incinta del loro primo, e unico, figlio. Ricoverata in una clinica,  e pregando che non avesse il suo stesso tipo di problemi genetici, diede alla luce un bambino. Purtroppo, il piccolo mostrava già i segni della malattia della madre, e dopo tre soli giorni morì. Per le complicanze del parto, anche Julia Pastrana lo seguì, due giorni dopo.

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Ma Lent, nonostante la morte della moglie e del figlio neonato, non aveva alcuna intenzione di chiudere baracca: mentre si trovava ancora in Russia, contattò il professor Sokulov all’Università di Mosca e lo assunse affinché imbalsamasse i corpi di Julia Pastrana e del suo bambino.

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Così, esponendo sul palco i corpi mummificati di Julia e del neonato in una teca di vetro, Lent continuò a girare l’Europa con diversi circhi. Più tardi sembra che sia riuscito a scovare una nuova donna-scimmia, a sposare anche lei e ad esibirla con il nome di Zenora Pastrana, arricchendosi notevolmente. Ma anche la sua fortuna stava per declinare, e nel 1884 venne rinchiuso in un manicomio in Russia, completamente pazzo. Vi morirà poco dopo.

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Le mummie di Julia Pastrana e del suo figlioletto passarono di mano in mano, da impresario ad impresario, fino a scomparire misteriosamente all’inizio del ‘900. Nel 1921 vennero riscoperte in Norvegia, ed esibite per circa 50 anni: quando venne proposto un tour americano delle spoglie imbalsamate, l’opinione pubblica insorse e l’indignazione portò addirittura ad alcuni atti di vandalismo, durante i quali la mummia del bambino venne mutilata. I resti rimasero nascosti e in balìa dei topi, finché nel 1979 la mummia di Julia venne trafugata. Riportata all’Istituto Forensico di Oslo, non venne identificata fino al 1990, dopodiché rimase chiusa in una bara nel Dipartimento di Anatomia dell’Università di Oslo fino al 1997.

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A seguito di una complessa battaglia burocratica durata quasi vent’anni, finalmente il 12 febbraio del 2013 i resti di Julia Pastrana sono stati sepolti con rito cattolico in un cimitero a Sinaloa de Leyva, in Messico, vicino a dove la famosa donna-scimmia era nata.

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La storia di Julia Pastrana ha ispirato il capolavoro La donna scimmia (1964) in cui queste vicende, trasportate nella Napoli degli anni ’60, sono lo spunto per denunciare con compiacimento grottesco e spietato le miserie del nostro paese e, come sempre in Marco Ferreri, divengono metafora del difficile rapporto fra i sessi. Nei panni di Julia (Maria, nel film), una coraggiosa e splendida Annie Girardot; Lent (ribattezzato Antonio Focaccia) è invece affidato all’interpretazione magistrale di Ugo Tognazzi, che ritrae il personaggio del marito-manager come il tipico italiano medio, né buono né cattivo, ma la cui ambiguità apre un abisso morale che inghiotte lo spettatore e che rende lo sfruttamento di un altro essere umano un evento banale – e, per questo stesso motivo, ancora più inquietante.

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(Alcune delle immagini nell’articolo sono tratte dal documentario prodotto da HBO Some Call Them Freaks – grazie Silvia!)

Monkey Glands

Un celebre chirurgo (Max Thorek) ricordava in un’intervista che negli anni ’20 “i festini alla moda e le chiacchiere all’emporio, così come i tranquilli ritrovi dell’élite medica, erano ravvivati di colpo soltanto a sussurrare queste parole: ‘Monkey Glands’ “. Le ghiandole di scimmia di cui tutti parlavano erano il frutto del lavoro di un uomo, Serge Voronoff, che sarebbe  stato screditato da lì a breve e condannato dall’opinione pubblica come ciarlatano, salvo essere in parte riabilitato in anni recenti.


Serge Abrahamovitch Voronoff, nato nel 1866, era un chirurgo russo naturalizzato francese. Dal 1896 al 1910 lavorò in una clinica in Egitto, e si interessò agli effetti della castrazione sugli eunuchi; questi primi suoi studi lo appassionarono talmente che da allora dedicò l’intera sua carriera alle correlazioni fra gonadi e longevità.

In realtà, Voronoff era già da tempo convinto che negli ormoni sessuali si celasse il segreto dell’eterna giovinezza. Nel 1889, Charles Brown-Sequard, oggi ritenuto uno dei padri della moderna endocrinologia,  si era iniettato un estratto ricavato da testicoli di cane e di cavia finemente macinati, e ispirato dall’esperimento Voronoff aveva provato su di sé lo stesso bizzarro elisir di lunga vita. Purtroppo il siero non aveva avuto l’effetto sperato di aumentare drasticamente il livello di ormoni nel suo corpo.

Dopo la sua permanenza in Egitto, comunque, Voronoff divenne ancora più sicuro delle sue idee. Certo, le iniezioni si erano rivelate fallimentari, ma le nuove tecniche di trapianto messe a punto in quegli anni davano speranze ben più entusiasmanti. Per provare l’esattezza della sua teoria, Voronoff in dieci anni eseguì più di 500 operazioni su capre, pecore e tori, trapiantando testicoli di animali giovani su animali più vecchi. Secondo le sue osservazioni, il nuovo “set” di attributi aveva l’effetto di rinvigorire i vecchi animali, e Voronoff si convinse di avere scoperto un metodo per combattere e rallentare la senilità.


Così il chirurgo passò alla sperimentazione sull’uomo, trapiantando ghiandole tiroidi di scimmia su pazienti umani che mostravano deficienze tiroidee. Per un breve periodo si dedicò anche al trapianto uomo-uomo di testicoli di criminali appena giustiziati, ma le scorte erano difficili da reperire e non bastavano a soddisfare la domanda, quindi Voronoff si orientò verso le gonadi dei primati.

Ovviamente, nessun paziente voleva ritrovarsi con due testicoli di scimmia al posto dei suoi: il trapianto messo a punto da Voronoff prevedeva quindi che fossero inserite nello scroto soltanto delle sottili fettine di qualche millimetro di larghezza tagliate dai testicoli di babbuini e scimpanzé. Questo tessuto era talmente fino che in poco tempo si sarebbe fuso con quello umano, offrendo diversi vantaggi che avevano del miracoloso: aumento della memoria, diminuzione della fatica, miglioramento dei muscoli attorno agli occhi che avrebbero reso superflui gli occhiali, aumento dell’appetito sessuale, prolungamento della vita. Forse il trapianto, si azzardò a teorizzare Voronoff, avrebbe portato beneficio anche nel curare la schizofrenia.


Il primo trapianto ufficiale di una ghiandola di scimmia in un corpo umano avvenne il 12 giugno 1920. Tre anni dopo Voronoff veniva applaudito da una schiera di 700 chirurghi riuniti per il Congresso Internazionale di Chirurgia a Londra.


La tecnica di Voronoff ebbe un successo travolgente, e per i ricchi milionari di tutto il mondo sottoporsi all’operazione divenne una vera e propria moda: all’inizio degli anni ’30 migliaia di persone avevano ottenuto il trattamento, 500 solo in Francia. Per far fronte al vertiginoso aumento di domanda, Voronoff aprì una fattoria di scimmie in una villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia, affidata ad un allevatore di animali che aveva lavorato per anni nel circo.

La villa era anche attrezzata con un laboratorio per il prelievo dei tessuti. Ecco una rara foto di un parto assistito dai chirurghi di Voronoff.

E le donne? Non avevano anche loro diritto a una nuova giovinezza?
Il tanto richiesto trapianto di ovaie di scimmia non tardò ad arrivare. Voronoff provò anche l’esperimento contrario: impiantò un’ovaia umana in una scimmia, e tentò di inseminarla con sperma umano. Purtroppo, o per fortuna, non successe nulla.

La fama e il successo di Voronoff erano alle stelle, tanto che egli risiedeva in uno degli hotel più costosi di Parigi, presso il quale aveva riservato l’intero primo piano per sé e per il suo entourage di maggiordomi, valletti, segretarie, autisti, e ben due capi del personale. Le ghiandole di scimmia entrarono a far parte della cultura dell’epoca: venivano citate dai fratelli Marx così come dal grande poeta E. E. Cummings; si vendevano posaceneri adornati di scimmie che si proteggevano i genitali, con la scritta “No, Voronoff, non mi avrai!”; in un bar di Parigi venne inventato un cocktail a base di gin, succo d’arancia, granatina e assenzio chiamato Monkey Gland.


Ma la fortunata carriera del chirurgo volgeva al termine. Si fecero sentire le prime proteste, quando si cominciò a capire che i trapianti non avevano le virtù pubblicizzate: molti chirurghi si schierarono contro l’utilizzo delle ghiandole, dichiarando che qualsiasi miglioramento era dovuto all’effetto placebo.

Nel 1935 in Olanda venne per la prima volta isolato il testosterone, l’ormone prodotto dai testicoli. Voronoff esultò, perché da sempre sosteneva che dovesse esserci una sostanza prodotta dalle ghiandole sessuali: l’iniezione di tale ormone avrebbe reso inutile il trapianto chirurgico, ma avrebbe anche finalmente confermato le sue teorie. Con suo grande disappunto, gli esperimenti di iniezioni a base di testosterone non risultarono affatto in un ringiovanimento e rafforzamento del corpo umano.


Negli anni ’40 a poco a poco il trattamento di Voronoff venne screditato dai medici, che lo bollarono come “non distante dai metodi di streghe e maghi”. Voronoff morì nel 1951 a seguito di una caduta, e pochi giornali pubblicarono la notizia, se non per ridicolizzare un’ultima volta le sue idee.

Oggi la comunità scientifica ha in parte rivisto la propria posizione sugli esperimenti e le teorie di Voronoff, dato che alla luce delle conoscenze odierne (in particolare sull’azione di barriera immunitaria delle cellule del Sertoli contenute nei testicoli e oggi usate in alcuni trapianti per evitare il rigetto) le intuizioni del chirurgo non sembrano più così completamente prive di fondamento.

Eppure c’è anche chi ha lanciato un’ombra ancora più grande sulla figura di Voronoff, suggerendo che egli sia stato l’inconsapevole responsabile di uno dei flagelli del nostro tempo: potrebbero essere stati proprio i suoi trapianti ad avere permesso il passaggio del virus HIV dalle scimmie all’uomo.

(Grazie, Elisa!)

Nim Chimpsky

È possibile insegnare alle scimmie a comunicare con noi attraverso il linguaggio dei segni? È quello che voleva scoprire il dottor Herbert Terrace della Columbia University di New York quando, all’inizio degli anni ’70, diede avvio al suo rivoluzionario”progetto Nim”.

Nim Chimpsky era uno scimpanzé di due settimane, chiamato così per parodiare il nome di Noam Chomsky, linguista e intellettuale fra i più influenti del XX Secolo (chimp in inglese significa appunto scimpanzé).
Nato in cattività presso l’Institute of Primate Studies di Norman (Oklahoma), nel dicembre del 1973 Nim venne sottratto alle cure di sua madre, e affidato da Terrace a una famiglia umana: quella di Stephanie LaFarge, sua ex-allieva. L’intento era quello di crescere il cucciolo in tutto e per tutto come un essere umano, vestirlo come un bambino, trattarlo come un bambino, insegnargli le buone maniere, ma soprattutto cercare di fargli apprendere il linguaggio dei sordomuti.

L’idea di Terrace potrà sembrare un po’ folle e temeraria, ma va inserita in un contesto scientifico peculiare: la linguistica era agli albori, e da poco veniva associata all’etologia per comprendere se si potesse parlare di linguaggio vero e proprio anche nel caso degli animali. Lo stesso Chomsky faceva parte di quella fazione che sosteneva che il linguaggio fosse una caratteristica specifica e assolutamente unica dell’essere umano; secondo questa tesi, gli animali certamente comunicano fra di loro – e si fanno capire bene anche da noi! – ma non possono utilizzare una vera e propria sintassi, che sarebbe prerogativa della nostra struttura neurologica.
Se Nim fosse riuscito ad imparare il linguaggio dei segni, sarebbe stato un vero e proprio terremoto per la comunità scientifica.

Il professor Terrace però commise da subito un grave errore.
La famiglia a cui aveva affidato Nim non era effettivamente la più adatta per l’esperimento: nessuno dei figli della LaFarge era fluente nel linguaggio dei segni, e quindi nella prima fase della sua vita, quella più delicata per l’apprendimento, Nim non imparò granché; inoltre, la madre adottiva era un’ex-hippie con un’idea piuttosto liberale nell’educare i figli.
Nim finì per essere lasciato libero di scorrazzare per il parco, di mettere la casa sottosopra, e addirittura di fumarsi qualche spinello assieme ai “genitori”.
Quando Terrace si rese conto che non stava arrivando alcun questionario compilato, che certificasse i progressi del suo scimpanzé, comprese che l’esperimento era seriamente a rischio. Il clima indisciplinato e caotico di casa LaFarge metteva in pericolo l’intero studio.


Terrace decise quindi di incaricare una studentessa ventenne, Laura-Ann Petitto, dell’educazione di Nim.
Strappato per una seconda volta alla figura materna, lo scimpanzé venne trasferito in una residenza di proprietà della Columbia University, dove la Petitto cominciò un più rigido e intensivo programma di addestramento.
In poco tempo Nim imparò oltre 120 segni, e i suoi progressi cominciarono a fare scalpore. Conversava con i suoi maestri in maniera che sembrava prodigiosa, e in generale faceva mostra di un’intelligenza acuta, tanto da arrivare addirittura a mentire.

Ma ormai Nim non era già più un cucciolo, e con la giovane età cominciò a crescere di mole e soprattutto di forza. I suoi muscoli erano potenti come quelli di due maschi umani messi assieme, e spesso Nim non era in grado di misurare la violenza di un suo gesto: gli stessi giochi che qualche mese prima erano spensierati, diventavano per gli addestratori sempre più pericolosi perché lo scimpanzé non si rendeva conto della sua forza.
Con lo sviluppo sessuale e la maturazione verso l’età adulta, inoltre, crebbe anche la sua aggressività: la Petitto venne attaccata diverse volte, due delle quali in maniera molto grave. I morsi di Nim in un’occasione le lacerarono la faccia, costringendola a 37 punti di sutura, e in un’altra le recisero un tendine.

La tensione psicologica era insopportabile, e la Petitto decise di lasciare l’esperimento… e di lasciare Terrace, con il quale aveva cominciato una relazione sentimentale.
Joyce Butler, una studentessa di vent’anni, entrò a sostituire la Petitto come terza madre adottiva di Nim. Anche lei fu più volte attaccata dalla scimmia, e la difficoltà di reperire fondi fece infine decidere a Terrace di dichiarare concluso l’esperimento, e smantellare il progetto dopo solo quattro anni.

Qui cominciò un vero e proprio calvario per il povero Nim. Egli non aveva infatto mai avuto contatti con altri primati, essendo sempre vissuto con gli umani: quando gli scienziati lo riportarono all’Institute of Primate Studies, Nim era completamente terrorizzato dai suoi simili e ci vollero diversi uomini per staccarlo da Joyce Butler, alla quale si era avvinghiato, per essere rinchiuso nella gabbia.
Per “lo scimpanzé che sapeva parlare”, abituato a mangiare a tavola in compagnia degli esseri umani e a correre libero nel parco, la prigionia fu uno shock terribile. Ma le cose erano destinate a peggiorare, perché l’istituto decise di trasferirlo in un centro di ricerca scientifico in cui si faceva sperimentazione sugli animali.

Rinchiuso in una gabbia ancora più angusta, di fianco a decine di altre scimmie terrorizzate in attesa di essere inoculate con virus e antibiotici, il futuro di Nim era tutt’altro che roseo. Terrace non muoveva un dito per salvarlo da quel destino, e così ci pensarono alcuni degli assistenti che avevano preso parte al progetto: organizzarono un battage mediatico denunciando le condizioni inumane in cui Nim era tenuto, diedero avvio a un’azione legale e infine riuscirono a farlo trasferire in un ranch di recupero per animali selvatici, liberando anche le altre scimmie destinate agli esperimenti.

Nonostante fosse al sicuro in questa riserva naturale, Nim era ormai provato, abbattuto e depresso; restava immobile e senza mangiare anche per giorni. Quando dopo anni la sua prima madre adottiva, Stephanie LaFarge, gli fece visita e volle entrare nella gabbia, Nim la riconobbe immediatamente e, come se la ritenesse responsabile per averlo abbandonato, la attaccò quando lei provò ad entrare nella gabbia.

Eppure arrivò per Nim almeno un’ultima, insperata, dolce sorpresa: dopo un lungo periodo di solitudine, un altro scimpanzé, femmina, venne introdotto nella sua gabbia e per la prima volta Nim riuscì a socializzare con la nuova arrivata.
Potè così passare gli ultimi anni della sua vita in compagnia di una nuova amica, forse più sincera e fidata di quanto non fossero stati gli uomini. Nim morì nel 2000 per un attacco di cuore.

Il professor Terrace, dopo aver cercato e ottenuto la fama grazie a questo ambizioso progetto, tornò sui suoi passi e dichiarò che il progetto era stato fallimentare; dichiarò che Nim non aveva mai veramente imparato a formulare delle frasi di senso compiuto, ma che era soltanto divenuto abile ad associare certi segni alla ricompensa, e aveva capito quali sequenze usare per ottenere del cibo. La voglia dei ricercatori di vedere in un animale un’intelligenza simile alla nostra aveva insomma viziato i risultati, che andavano grandemente ridimensionati.
Ancora oggi però c’è chi è convinto del contrario: gli assistenti e i collaboratori che hanno conosciuto Nim e si sono presi cura di lui continuano anche oggi a sostenere che Nim sapesse davvero parlare in maniera chiara e precisa, e che se Terrace si fosse degnato di stare un po’ di più con lo scimpanzé, invece di relazionarsi con lui soltanto al momento di farsi bello davanti ai fotografi, l’avrebbe certamente capito.

La ricerca, per la metodologia confusionaria con cui venne condotta, ha effettivamente un valore scientifico relativo, e i dati raccolti si prestano a interpretazioni troppo volubili.
D’altronde un esperimento come il progetto Nim è figlio del suo tempo, e sarebbe impensabile replicarlo oggi; lo strano destino di Nim, questo essere speciale che ha vissuto due vite in una, la prima come “umano” e la seconda come animale da laboratorio, continua però a sollevare altre questioni, forse ancora più fondamentali. Ci interroga sui confini (reali? inventati?) che separano l’uomo dalla bestia, e soprattutto sui limiti etici della ricerca.

Nel 2010 James Marsh (già regista di Man On Wire) ha diretto uno splendido documentario, Project Nim, costituito in larga parte di materiale d’archivio inedito, che ripercorre in maniera commovente e appassionante l’intera vicenda.

Kapala

I kapala (in sanscrito, “teschio”) sono coppe rituali caratteristiche del tantrismo di matrice induista o buddista, utilizzate in diversi rituali sacri, e ricavate normalmente dalla calotta cranica di un teschio umano.

Tipiche del tantrismo tibetano, quello più specificatamente magico e sciamanico, queste coppe sono spesso scolpite in bassorilievo con figure sacre (soprattutto Kali la dea dell’eterna energia, Shiva il distruttore e creatore, principio primo di tutte le cose, e Ganesha colui che rimuove gli ostacoli), e talvolta montate con elaborati orpelli e abbellimenti in metallo e pietre preziose.

Gli utilizzi rituali di queste coppe sono molteplici: vengono impiegate nei monasteri tibetani come piatti di offerta di libagioni per gli dèi – pane o dolci a forma di occhi, lingue, orecchie – come oggetti di meditazione, o per iniziazioni esoteriche che prevedono che dai kapala si beva sangue o vino. A seconda di cosa contengono, le coppe vengono chiamate con differenti appellativi.

Gli dèi tantrici vengono talvolta rappresentati mentre reggono dei kapala nelle mani, o bevono il sangue da simili coppe. Esistono kapala ricavati da teschi di scimmie o di capre, che come quelli umani debbono essere consacrati prima che si possano utilizzare per scopi religiosi.

L’antica tradizione dei kapala è vista spesso come un retaggio di antichi sacrifici umani. Quello che ne resta al giorno d’oggi è una strana, macabra ma affascinante forma d’arte e di scultura, una sorta di memento mori ritualizzato, che dona a questi oggetti un alone di mistero e ci riconnette al senso più vero e ineluttabile del sacro.

La donna gorilla

La trasformazione a vista d’occhio di una donna in gorilla è uno dei trucchi storici che hanno avuto maggiore successo nei luna-park, nelle fiere itineranti, nei sideshow e nei circhi di tutto il mondo. Ultimamente sta un po’ passando di moda, dopo decenni di lustro e splendore, ma qualche circo (anche italiano) utilizza ancora questa attrazione per divertire e intrattenere il pubblico.

L’attrazione consiste in questo: voi (il pubblico) entrate in una piccola stanza oscura, e vedete sul palco una gabbia illuminata. All’interno della gabbia, una donna discinta. L’imbonitore sale sul palco, e comincia ad affabularvi con la sua storia. Il più delle volte vi racconterà del celebre “anello mancante”, quel primate che si troverebbe fra lo stadio di scimmia e quello umano, che Darwin non riuscì mai a individuare. Dopo avervi rassicurato della robustezza della gabbia, e avervi preparato allo show più elettrizzante dell’intero pianeta, vi annuncerà che la ragazza sta per mutare di forma sotto ai vostri occhi! Sì, proprio lei, quella bella prigioniera che scuote le sbarre della gabbia grugnendo, è l’anello mancante! Può passare indistintamente dallo stadio umano a quello di scimmia e viceversa! “Guardate i suoi denti divenire feroci fauci, signore e signori!”

Mentre, scettici, aspettate il momento clou, comincia davvero a succedere qualcosa: lentamente, come in un morphing cinematografico, alla ragazza spuntano dei peli, le braccia divengono nere e muscolose e per ultima la sua faccia assume i tratti di uno scimmione tropicale… e poco importa se capite benissimo che il gorilla è in realtà un tizio in un costume, siete colpiti e ipnotizzati dall’effetto della trasformazione, che è talmente vivida e reale… in quel momento sospeso, in quell’attimo di sorpresa, il gorilla con un colpo secco sfonda le sbarre della gabbia, e si avventa verso di voi urlando! Nelle grida di panico e nel fuggi fuggi generale (aiutato dai circensi che, con la scusa di salvarvi la pelle, vi indirizzano gesticolando verso l’uscita), senza sapere come, vi trovate fuori dall’attrazione, insicuri e un po’ frastornati da ciò che avete visto.

Cosa è successo? Si tratta in verità di un ingegnoso trucco ottico messo a punto nei lontani anni 1860 da due scienziati, Henry Dircks e John Henry Pepper (l’effetto prenderà il nome di quest’ultimo, data la sua celebrità nell’epoca vittoriana, nonostante egli avesse più volte cercato di dare il giusto credito al vero inventore, Dircks). Inizialmente studiato per il teatro, non prese mai piede sui grandi palcoscenici: fu invece “riciclato” per i luna-park e viene tutt’ora impiegato nei più grandi parchi a tema del mondo.

Il segreto sta in un pannello di vetro o uno specchio semitrasparente, camuffato e posto tra il pubblico e la scena. Il vetro è angolato (in verde nella figura) in modo da riflettere gli oggetti che vengono illuminati in una seconda camera (nascosta al pubblico, il quale vede soltanto il palco, delimitato dal quadratino rosso). Visto da una posizione più elevata, l’effetto sarebbe visibile in questo modo:

Le due camere (quella di scena e quella “segreta”) devono combaciare perfettamente nel riflesso sul vetro. Il fantasmino nascosto nella stanza di sinistra, quando è illuminato, è visibile nel riflesso come se fosse presente veramente sulla scena; se è illuminato fiocamente, appare come una presenza ectoplasmatica; e se resta al buio, rimane completamente invisibile.

Una volta preparate con cura le due camere e il vetro, il resto diviene semplice: la donna mantiene una posizione fissa in fondo alla stanza visibile, e mentre il gorilla (il fantasma, nello schema) viene gradatamente illuminato, il pubblico vedrà i suoi peli “comparire” a poco a poco, come in una dissolvenza incrociata, sul corpo della giovane fanciulla. Finché, ad un certo punto, resterà soltanto il gorilla, capace (grazie a un cambio di luci repentino e a un calcolato “sbalzo di tensione” che oscura la scena per un paio di secondi) di balzare fuori dalla sua stanza segreta e sfondare la gabbia per gettarsi sul pubblico.

L’effetto, come già detto, era stato pensato per il teatro. Gli attori avrebbero avuto la possibilità di fingere un combattimento o un dialogo con uno spettro realistico. Il vero problema erano però i soldi: sembrava una follia riadattare tutti i teatri soltanto perché Amleto avesse finalmente la possibilità di parlare con uno spettro del padre più “evanescente” del solito.

Oggi la tecnica del “fantasma di Pepper” è utilizzata invece, oltre che nei circhi, anche in molti musei scientifici e culturali, per movimentare la didattica di alcune esibizioni.

Pagina Wikipedia (in inglese) sul Pepper’s Ghost.

Amore materno

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