R.I.P. Herschell G. Lewis

Yesterday, at the age of 87, Herschell Gordon Lewis passed away.
This man remains an adorable, unique paradox. Clumsy director yet a crafty old devil, completely foreign to the elegance of images, who only ever made movies to scrape out a living. A man who unwillingly changed the history of cinema.

His intuition — even slightly accidental, according to the legend — was to understand B-movies had the task of filling, unveiling mainstream cinema’s ellipses: the key was to try and put inside the frame everything that, for moral or conventional reasons, was usually left off-screen.
A first example were nudies, those little flicks featuring ridiculous plots (if any), only meant to show some buttocks and breasts; a kind of rudimental sexploitation, not even aiming to be erotic. H. G. Lewis was the first to realize there was a second taboo besides nudity that was never being shown in “serious” movies, and on which he could try to cash in: violence, or better, its effects. The obscene view of blood, torn flesh, exposed guts.

In 1960 Hitchcock, in order to get Psycho through censorship, had to promise he would change the editing of the shower scene, because someone in the examination board thought he had seen a frame where the knife blade penetrated Janet Leigh’s skin. It doesn’t matter that Hitch never really re-edited the sequence, but presented it again a month later with no actual modification (and this time nobody saw anything outrageous): the story is nonetheless emblematic of Hays Code‘s impositions at the time.
Three years later, Lewis’ Blood Feast came out. An awfully bad movie, poorly directed and even more awkwardly acted. But its opening sequence was a bomb by itself: on the scene, a woman was stabbed in the eye, then the killer proceeded to dismember her in full details… all this, in a bathtub.
In your face, Sir Alfred.

Of course today even Lewis’ most hardcore scenes, heirs to the butcheries of Grand Guignol, seem laughable on the account of their naivety. It’s even hard to imagine splatter films were once a true genre, before gore became a language.

Explicit violence is today no more than an additional color in the director’s palette, an available option to knowingly choose among others: we find it anywhere, from crime stories to sci-fi, even in comedies. As blood has entered the cinematic lexicon, it is now a well-thought-out element, pondered and carefully weighed, sometimes aestheticised to the extremes of mannerism (I’m looking at you, Quentin).

But in order to get to this freedom, the gore genre had to be relegated for a long time to second and third-rank movies. To those bad, dirty, ugly films which couldn’t show less concern for the sociology of violence, or its symbolic meanings. Which, for that very same reason, were damn exciting in their own right.

Blood Feast is like a Walt Whitman poem“, Lewis loved to repeat. “It’s no good, but it was the first of its type“.
Today, with the death of its godfather, we may declare the splatter genre finally filed and historicized.

But still, any time we are shocked by some brutal killing in the latest Game of Thrones episode, we should spare a thankful thought to this man, and that bucket of cheap offal he purchased just to make a bloody film.

R.I.P. Mike Vraney

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Il 2 gennaio, all’età di 56 anni si è spento Mike Vraney. Sicuramente il suo nome non vi dirà molto, ma questo eterno adolescente dall’entusiasmo senza freni è stato il fondatore della Something Weird, una distribuzione home video che ha cambiato a suo modo la storia del cinema. Giusto per chiarire, se non fosse per lui l’ormai celebratissima pin-up Bettie Page e il padrino del gore Herschell G. Lewis non sarebbero forse oggi così sconosciuti.

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Mike aveva una missione: scovare, distribuire e rendere noti al pubblico tutti quei film a bassissimo budget, prodotti in maniera oscura, che rischiano di venire dimenticati come spazzatura. Collezionava in modo ossessivo film assurdi, weird, talmente folli o brutti da possedere un innegabile potere di seduzione: le pellicole, insomma, in cui le ristrettezze economiche o l’incompetenza della troupe rendono comici e stranamente poetici tutti quegli errori che in un film mainstream non potremmo mai tollerare.

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I produttori di questi film spesso li tenevano chiusi nel casssetto, ritenendoli ringuardabili e invendibili. Vraney, scandagliando i loro archivi, scovava le “perle” nascoste, e comprava i negativi, di cui essi erano ben lieti di sbarazzarsi.
Poi, spiazzando tutti, ci faceva i soldi: per questo motivo era stato soprannominato affettuosamente “il quarantunesimo ladrone”.

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Il suo business funzionava proprio perché era lui stesso in prima persona un fan sfegatato di tutto ciò che di bizzarro il cinema di serie B o Z è riuscito a sfornare. Il catalogo della Something Weird propone al pubblico una gamma sorprendente di “filoni” e generi di cui pochi, anche fra i cinefili più smaliziati, avevano sentito parlare prima che Vraney li distribuisse. Vi si trovano enfatici filmati “educativi” anni ’50 sui pericoli della strada (che talvolta erano degli splatter ante litteram), e sugli esagerati e irrealistici danni della marijuana o del sesso; i nudies cuties, film di inzio anni ’60 che con il pretesto di una striminzita trama proponevano i primi, scandalosi (per l’epoca) nudi femminili; introvabili e rari loop erotici/striptease dell’era del proibizionismo, fra cui appunto quelli di Bettie Page; film pensati per i bambini, ma per un motivo o per l’altro risultati completamente distorti e angoscianti; peplum con scenografie da recita scolastica; spaghetti-western messicaneggianti ridicoli e raffazzonati; i primi film della storia a rappresentare il “terzo sesso” (l’omosessualità), con tutte le ingenuità che ci si può aspettare; e, ancora, cartoni animati svalvolati, detective privati guardoni, assassini pazzoidi più pericolosi per il loro overacting che per la crudeltà, film celebri reinterpretati da un cast interamente di colore, e tutta una galassia di seni, culi, melodrammi, pubblicità ambigue, film di guerra e di avventura senza guerre né avventure (sempre per motivi di budget).

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Le proposte editoriali della Something Weird sono talvolta uno spasso già dal titolo. Eccone alcuni:
The Secret Sex Lives Of Romeo And Juliet (Le segrete vite sessuali di Romeo E Giulietta)
Fire Monsters Vs. The Son Of Hercules (I Mostri del Fuoco contro il Figlio di Ercole)
Masked Man Against The Pirates (L’Uomo Mascherato contro i Pirati)
Superargo Vs. The Faceless Giants (Superargo contro i Giganti Senza Volto)
Diary Of A Nudist (Il Diario di una Nudista)
Adult Version of Jeckyll & Hyde (La versione adulta di Jeckyll & Hyde)
The Fabulous Bastard From Chicago (Il Favoloso Bastardo di Chicago)

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Il cinema, si sa, è un’arte che si mescola e si confonde con l’industria: con buona pace di chi sbraita che i film dovrebbero essere questo o quello, sia i blockbuster di Michael Bay che gli esperimenti di Guy Debord sono cinema. E allora, se qualcosa ci insegna la meticolosa ricerca di Vraney, è che si possono trovare delle piccole pepite anche nell’immensa “fogna” dei film di consumo, quelli che un tempo venivano girati esclusivamente a fini economici, senza alcuna aspirazione artistica… ma che offrono di sicuro almeno una sana risata se non proprio, in rari casi, qualche breve e fulminea illuminazione. E ci fanno riflettere su quanto complessa e variegata sia stata nell’ultimo secolo la produzione cinematografica, e sul patrimonio che andrebbe completamente perduto in assenza di persone come Mike.

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Snuff Movies

Di tanto in tanto, nelle notizie di cronaca più sensazionalistiche, fanno capolino i fantomatici snuff movies. Se ne parla da decenni e, nonostante le centinaia di pagine di inchiostro scritte al proposito, l’alone di mistero che li circonfonde resiste. Cosa sono esattamente?

Molti di voi sapranno già la risposta: si tratta di film prodotti a basso budget in cui vengono mostrate sevizie e torture reali, che culminano con l’uccisione del “protagonista” davanti al freddo occhio della videocamera, senza effetti speciali e senza trucchi. La morte violenta e reale della vittima di uno snuff movie garantisce un mercato esclusivo per la pellicola in questione, che viene venduta  a peso d’oro ai collezionisti più morbosi e depravati. Questo, almeno, è quanto si racconta. Sì, perché in verità nessuno ha mai visto uno snuff movie.

Essendo la morte, nella nostra cultura, un tabù progressivamente sostituito dalla sua immagine, sempre più onnipresente, la curiosità di vedere la morte, nell’esatto momento in cui avviene, cresce di continuo. Così, di filmati che mostrano la morte in diretta se ne trovano a centinaia su internet: dai classici intramontabili quali il suicidio di Budd Dwyer (prima grande star del voyeurismo mediatico, suo malgrado), fino alle decapitazioni ad opera dei terroristi islamici, alle atrocità di guerra negli stati sovietici o agli incidenti fatali più agghiaccianti, la morte su internet è presente in abbondanza. Trovare addirittura fotografie e filmati realizzati da alcuni serial killer, che mostrano violenze e smembramenti davvero agghiaccianti, è in definitiva un gioco da ragazzi.

Ma gli snuff sarebbero qualcosa di differente. Lo snuff movie dovrebbe avere alle spalle una vera e propria produzione, ed essere girato con l’unico scopo di mostrare un omicidio reale, senza alcuna altra motivazione che il profitto derivante dalla vendita del film. I filmati in cui vediamo un serial killer uccidere le sue vittime non sono snuff, perché originariamente intesi per uso personale. Lo snuff vero e proprio prevede una organizzazione che intrappola vittime innocenti e le sacrifica in nome di un mercato sotterraneo alla ricerca di emozioni sempre più forti.

Insomma, avete capito l’antifona: qualche miliardario senza scrupoli (solitamente americano) ordina un filmato di morte, e un gruppo di persone organizza un apposito set (solitamente in Sudamerica, dove la vita è più a buon mercato), per realizzarlo con il “contributo” di una ignara attrice assassinata davanti alla macchina da presa. Non so se in questo momento a voi sta suonando un campanello di allarme. Farebbe bene a suonare, con una scritta lampeggiante che dice “LEGGENDA METROPOLITANA”.

Analizziamo i concetti base della storia. Il ricco miliardario è in realtà un morboso e sadico voyeurista. Già questo personaggio (basato sull’idea che i soldi rendono “sporchi” e “diabolici”, e spingono alla ricerca dell’estremo onanismo sadico, visto che i piaceri comuni non bastano più) puzza di cliché. Se esaminiamo il resto della leggenda – la prostituta spesso proveniente dal Terzo Mondo, a sottolineare come la gente povera sia disposta a tutto – ci ritroviamo all’interno dei più triti preconcetti da bar. Unite a questo una spruzzata di superstizione nei riguardi della macchina da presa che “ruba l’anima”, un etto di chiacchiere sull’assenza di scrupolo da parte dei media, ed ecco che la leggenda diventa plausibile agli occhi dei più.

Nessuno snuff è mai stato ritrovato in nessun angolo del mondo, fino ad ora. Né l’FBI, né alcuna altra organizzazione investigativa ne ha mai rilevato traccia. E, nell’era di internet, nessuno snuff è mai affiorato sulla rete. La storia di questa persistente leggenda urbana è particolarmente interessante perché, a differenza di altri miti moderni, ha un inizio ben preciso.

Nel 1971 Michael e Roberta Findlay girano in Cile e Argentina un film intitolato Slaughter. La pellicola cercava di far leva sulla strage di Bel Air, avvenuta due anni prima, nella quale perse la vita anche la moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, ad opera degli adepti di Charles Manson. Slaughter si rivela un filmaccio a basso budget della peggior specie, ma viene acquistato per una miseria dal distributore Allan Shackleton nel ’72. Per distribuire una tale porcheria, Shackleton (che era della vecchia scuola di distributori di sexploitation, abituato a inventarsi le trovate più mirabolanti pur di vendere una pellicola) decide che ci vuole una mossa di marketing costruita a regola d’arte.

Mette così in piedi una campagna pubblicitaria ad effetto, lasciando intendere che il film sia stato originariamente sequestrato dalla polizia mentre veniva contrabbandato dal Sudamerica agli Stati Uniti, e che presenti nel finale una sequenza di omicidio non simulata. Cambia il titolo della pellicola in Snuff.  Distribuisce addirittura ritagli di giornale a firma di un giornalista, “Vincent Sheehan”, che nei suoi articoli astiosi polemizza contro l’uscita del film nelle sale. Sheehan è ovviamente un altro parto della fervida fantasia di Shackleton.

“L’isteria della stampa fa il resto: i critici di tutto il paese si lanciano in fumiganti filippiche contro il film, prendendo per buone le panzane di Shackleton e dando così credibilità alle voci giudiziosamente sparse dal distributore. Prima ancora di uscire nelle sale, Snuff è già oggetto di scandalo e riprovazione. Il bello è che Shackleton deve ancora preparare il finale vero e proprio del film, che rimpiazzerà quello originario di Slaughter: i cinque minuti finali vengono girati […] in un solo giorno in un appartamento di Manhattan, al costo di 10.000 dollari” (da Sex and Violence, di R. Curti e T. La Selva, 2003, Lindau).

Nonostante Shackleton sia in seguito costretto ad ammettere che si trattava di una bufala, il clamore suscitato dalla pellicola fonda il mito degli snuff movie. Da lì in poi, sarà tutto un susseguirsi di operazioni di bassa exploitation che cercheranno di sfruttare quest’idea geniale. Nei cosiddetti mondo movies italiani molte scene “documentaristiche” sono in realtà ricreate ad arte e spacciate per vere, e così farà anche Ruggero Deodato nel suo famigerato Cannibal Holocaust (1978): il regista chiederà addirittura agli attori (tra i quali figura un giovane Luca Barbareschi, protagonista di una controversa scena in cui spara a un maialino) di scomparire dalla circolazione nei mesi successivi all’uscita del film, per alimentare la leggenda che le loro “morti” non fossero simulate.

Con regolarità, nei decenni successivi, di tanto in tanto spunta qualche sequenza di sevizie che fa il giro del mondo perché ritenuta uno snuff, salvo poi rendersi conto che è stata estrapolata da qualche film horror di bassa lega. Anche l’attore Charlie Sheen viene gabbato nel 1997, quando viene in possesso di uno snuff incredibile: una donna giapponese, legata ad un letto, viene seviziata e fatta lentamente a pezzi da un uomo vestito da samurai. Sheen, sconvolto, consegna il filmato all’FBI, convinto che si tratti di torture vere. Si scoprirà quasi subito che le riprese provengono dalla serie TV giapponese Guinea Pig, girata negli anni ’80 e famosa per i suoi effetti speciali iperrealistici.

Per quanto possa sembrare sorprendente, ancora oggi la leggenda resiste, viva e vegeta, nonostante l’assenza di prove e le continue bufale smascherate di volta in volta. Ancora più strano è che questo mito perduri in un’epoca in cui basta un po’ di esperienza per scovare sulla rete diversi siti che propongono efferatezze e crudeltà (purtroppo) tutt’altro che inventate. Ma gli snuff movies evidentemente hanno un fattore in più, che fa presa sull’immaginario collettivo: come in una favola moderna, ci parlano simbolicamente dell’avidità umana, della mancanza di scrupoli e del pericoloso potere occulto delle immagini.

R.I.P. Tura Satana

La regina dell’exploitation ci ha lasciato. L’indimenticabile interprete di Varla in Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965, Russ Meyer) si è spenta venerdì scorso nella città di Reno, Nevada, all’età di 73 anni.