Interconnessioni

Jorge Louis Borges, contemplando il suo bastone da passeggio in lacca cinese, scriveva queste parole:

“Lo guardo. Penso all’artigiano che lavorò il bambù e lo piegò affinché la mia mano destra potesse stringerlo bene nel pugno.
Non so se vive ancora o è morto.
Non so se è taoista o buddista o se interroga il libro dei sessantaquattro esagrammi.
Non ci vedremo mai.
È sperduto tra novecentotrenta milioni.
Qualcosa, tuttavia, ci lega.
Non è impossibile che Qualcuno abbia premeditato questo vincolo.
Non è impossibile che l’universo necessiti di questo vincolo.”

(da La cifra, 1981)

Ad ogni causa corrisponde un effetto, certo. Ma la causalità va inserita in una visione più ampia e complessa: quella delle interconnessioni, delle interdipendenze. Ce lo dicono da centinaia d’anni poeti, mistici, visionari – e dal secolo scorso anche fisici e scienziati: nulla esiste per conto proprio, ma ogni cosa è legata alle altre, anche le più remote, le più lontane o antiche. Così la vostra vita (e intendo proprio la vostra giornata di oggi!) è influenzata ovviamente da come vi svegliate, ma anche dal modo in cui la luce filtra dalla finestra, dalle nuvole nel cielo e dal rumore che proviene dalla strada; cosa più difficile da afferrare, la vostra potrebbe essere una buona o una cattiva giornata a seconda se una pecora, in un villaggio del Messico, stia calpestando o meno una violetta. E ancora: la vostra giornata è influenzata da Scipione che sconfigge Annibale, dal buon funzionamento della ghigliottina in una calda mattina di fine ‘700, e in definitiva da ogni uomo o donna o animale che sia comparso ed abbia agito sulla Terra. Ogni minima cosa accaduta vi ha portato fin qui, e contribuisce a farvi sentire come vi sentite ora.

Vi sembra che stiamo esagerando? Facciamo allora un esempio.

Fabio è un ragazzo di quindici anni, e sfogliando un libro d’arte si imbatte per la prima volta nella sua vita in un quadro splendido: si tratta dell’ Urlo di Munch. Il cielo dai colori apocalittici e la figura sgomenta in primo piano lo colpiscono profondamente, toccano una parte di lui che sta appena nascendo. Immediatamente, Fabio sente un’affinità con quel dipinto, che gli sembra racchiudere tutta la paura, l’insicurezza e l’orrore che l’universo gli ispira.


In un’altra parte del mondo, Margot sta completando la lettura di Frankenstein di Mary Shelley. Margot è romantica, ma è ugualmente attratta dalla scienza. Il libro sembra riassumere le sue due passioni, e la tragica storia del mostro riportato in vita con parti di cadavere la affascina. Margot è rapita dalle sue fantasticherie.

Sono due esperienze comuni, e senza una evidente correlazione. Eppure, per quanto sembri assurdo, ciò che oggi provano Fabio e Margot è strettamente collegato a due vulcani, ubicati in una remota parte del pianeta, in Indonesia: il vulcano Tambora e il vulcano Krakatoa.

Nell’aprile del 1815 il vulcano Tambora esplose con una furia talmente devastante da riempire l’atmosfera terrestre di cenere e polveri sottili per i quattro anni a seguire: l’eruzione fu 52.000 volte più potente della bomba di Hiroshima. Si stima che, a livello globale, questa catastrofe costò la vita a più di 60.000 persone. La cenere sparata nell’atmosfera causò cambiamenti climatici drammatici, e il 1816 venne ricordato come l’ “anno senza estate“: anche in Europa la luce del sole non riuscì a scaldare le messi; piogge, gelo e carestie si prolungarono per tutto l’anno. Proprio a causa di queste condizioni climatiche avverse, un gruppo di poeti romantici si ritirò in una villa, a Ginevra, dove si sfidarono l’un l’altro a scrivere la più paurosa storia del terrore. In questa sessione di scrittura creativa, nata proprio dalle intemperie causate dal vulcano, vide la luce il romanzo Frankenstein ad opera della signora Shelley, moglie del più celebre poeta inglese Percey Shelley. Quanto questo romanzo abbia influito sulla cultura occidentale è noto.

Il 27 agosto 1883, il vulcano Krakatoa (poco distante dal Tambora) eruttò con un’energia equivalente a 500 megatoni, provocando il suono più forte mai udito sul pianeta, un boato che arrivò a quasi 5000 km di distanza. L’esplosione ridusse in cenere l’isola sulla quale sorgeva il vulcano e scatenò un’onda di maremoto alta 40 metri, che correva alla velocità di 1120 km/h. Morirono più di 36.000 persone, e fu riportata la presenza di gruppi di scheletri umani vaganti alla deriva per l’oceano indiano su zattere di pomice vulcanica, e finiti sulle coste orientali dell’Africa fino a un anno dopo l’eruzione.
A causa delle particelle di cenere emesse nell’aria, la Luna mantenne per anni un colore bluastro.

L’eruzione generò anche tramonti spettacolari in tutto il mondo per diversi mesi successivi, a causa del fatto che la luce solare si rifletteva sulle particelle di polvere sospese nell’aria, eruttate dal vulcano nell’atmosfera. L’artista inglese William Ashcroft realizzò centinaia di schizzi a colori dei tramonti rossi intorno al mondo (generati dal Krakatoa) negli anni successivi all’eruzione.

Nel 2004 alcuni ricercatori supposero che il cielo color rosso sangue del famoso quadro di Edvard Munch L’urlo, realizzato nel 1893, sia in realtà una riproduzione accurata del cielo norvegese dopo l’eruzione.

Così, senza eruzioni in Indonesia, niente Urlo, niente Frankenstein.

Attenti, perché la vertigine è a pochi passi. Quante altre, minuscole, impercettibili interconnessioni sfuggono al nostro occhio? Quante delle nostre scelte sono condizionate da eventi del passato, o da situazioni che logicamente riterremmo lontane da noi? La nostra mente è davvero razionale e a “tenuta stagna”, oppure le decisioni che prende sono continuamente influenzate dal mondo in cui è immersa? Il passato è veramente passato o vive ancora oggi al nostro fianco?

In un paesino del Messico, una pecora ha calpestato una violetta: ora sta a voi.

La rianimazione dei cadaveri

Il fulmine colpisce la torre più alta del castello. L’elettricità, sfrigolando lungo i cavi, si propaga attraverso i bulbi di un macchinario dai mille quadranti impazziti. L’assistente abbassa un’enorme leva, e il corpo sotto al lenzuolo ha un fremito. Il barone, vestito di un camice bianco, urla con gli occhi allucinati: “È VIVO!”, mentre una mano ricoperta di cicatrici si solleva dolorosamente…

L’idea di uno scienziato che rianima parti di cadaveri tramite le scariche elettriche è entrato nell’immaginario collettivo con il romanzo di Mary Shelley, Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, pubblicato nel 1818, e con tutti i film che ha ispirato – ma quest’idea non è strettamente una fantasia. Il fatto che nessuno sia ancora riuscito a rianimare un cadavere, non vuol dire che nessuno ci abbia provato.

Mary Shelley, infatti, non inventò dal nulla le basi scientifiche del suo romanzo. Si ispirò invece alle scoperte di un ricercatore italiano, il grande Luigi Galvani.

Galvani è ricordato principalmente per i suoi studi su quella che definì “elettricità animale”, e per i suoi esperimenti sulle rane: nel 1780, facendo passare una corrente elettrica attraverso i nervi di alcune rane sezionate, osservò contrazioni muscolari e movimenti delle gambe degli anfibi.

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Ma fu suo nipote, Giovanni Aldini, che portò le scoperte di Galvani ad uno spettacolare traguardo, che ricorda più da vicino le imprese del Barone Frankenstein.

Annoiato di avere a che fare con le rane, Aldini decise di passare a qualcosa di più stimolante. Cosa succederebbe, si chiese, se collegassimo all’elettricità il cadavere di un uomo?

Fu così che Aldini divenne il pioniere della rianimazione dei cadaveri. L’elettrificazione del corpo umano divenne il suo più grande show, che portò in giro per l’Europa, offrendo al pubblico un sensazionale – e agghiacciante – spettacolo.

La dimostrazione più celebre rimane quella svoltasi a Londra, al Royal College of Surgeons, il 17 gennaio 1803. L’assassino ventiseienne George Forster, impiccato per l’omicidio di moglie e figlio, appena staccato dalla forca fu portato nella sala del collegio. Aldini collegò i poli di una batteria rame-zinco da 120 volt a diverse parti del corpo di Forster: al volto innanzitutto, quindi alla bocca e alle orecchie. I muscoli della mascella ebbero uno spasmo e l’espressione dell’assassino divenne una smorfia di dolore. L’occhio sinistro si aprì, fissando sbarrato il suo torturatore. Aldini divenne l’onnipotente burattinaio di quella marionetta disarticolata: fece battere un braccio sul tavolo, inarcare la schiena, fece aprire i polmoni in un angosciato respiro.

Poi, il gran finale. Collegò un polo ad un orecchio, e infilò l’altro nel retto. Il cadavere cominciò una danza grottesca e terribile. Scrisse l’inviato del London Times: “la mano destra si è alzata stringendo il pugno, le gambe e i fianchi hanno iniziato a muoversi. Agli spettatori non informati su quel che stava succedendo è davvero sembrato che il corpo di quel disgraziato fosse sul punto di riprendere vita”.

In un altro dei suoi spettacoli scientifici, Aldini operava su una testa tagliata di vitello. Tirava fuori la lingua con l’aiuto di un gancio, poi al momento di accendere la corrente la lingua rientrava con tanta forza da portarsi dietro il gancio, emettendo un suono di risucchio che orripilava gli astanti.

Un altro pioniere della scienza convinto che proseguendo questi studi si sarebbe giunti a sconfiggere la morte era Andrew Ure.

Le sue dimostrazioni erano, se possibile, ancora più incisive di quelle di Aldini. Nel 1818 a Glasgow, il 4 novembre, Ure collegò il cadavere dell’assassino condannato a morte Matthew Clydesdale con una batteria ancora più potente, da 270 volt. Collegò il midollo spinale al nervo sciatico, e “tutti i muscoli del corpo si agitarono all’istante secondo un movimento convulsivo, come in un violento tremore causato dal freddo”. Il collegamento fra nervo frenico e diaframma provocò “un respiro completo, no, meglio dire faticoso… il petto si sollevò e si riabbassò, la pancia si spinse in fuori e poi ricadde, con il rilassamento e il ritirarsi del diaframma”. Infine, con l’usuale senso del climax, Ure unì i poli della batteria ad un nervo scoperto sulla nuca e al tallone.

“Tutti i muscoli si gettarono simultaneamente in un movimento spaventoso: rabbia, orrore, disperazione, angoscia e sorrisi terribili si unirono in un’orribile espressione sul volto dell’omicida, producendo un effetto di gran lunga più terrificante delle rappresentazioni di Füssli o Kean”. Alcuni spettatori persero i sensi, altri fuggirono dalla sala.

Ure era convinto di poter arrivare a rianimare davvero i morti, continuando questi esperimenti. “C’è una probabilità che la vita possa essere donata di nuovo, – scriveva – e questo evento, comunque poco desiderabile nel caso di un assassino, e forse contrario alla legge, avrebbe tuttavia ricevuto il perdono in un caso: se fosse stato sommamente onorevole e utile alla scienza”.

Lo sappiamo: gli scienziati sono persone scrupolose e precise, che pazientemente esaminano risultati e dati. È difficile ammetterlo, ma la scienza ha anche contribuito alla genesi di folli visionari e imbonitori da circo, che magari qualche volta hanno cambiato la storia… ma per la maggior parte no. La rianimazione elettrica di tessuti morti sembra un traguardo ormai abbandonato dalla moderna ricerca.

Il barone Victor Frankenstein sta ancora aspettando che il fulmine colpisca la più alta torre del suo castello. Ma almeno sa di non essere solo.

Le informazioni sono tratte dallo splendido libro Elefanti in acido di Alex Boese (2009, Baldini Castoldi Dalai editore).