The Perfect Tribe

This article originally appeared on #ILLUSTRATI n. 51 — Il Barone Rampante

© Markus Fleute

The Korowai people are the perfect tribe, because they are uncontaminated.
The first contact dates back to 1974, when about thirty natives where accosted by a team of anthropologists; it is assumed that until then the Korowai people were unaware of the existence of other populations beyond themselves. A few years later, the missionaries arrived to try and convert them.

The Korowai people are the perfect tribe, because they live in an exotic way.
Hidden in a forest’s corner in one of the most secluded countries—the isle of New Guinea—they build stilt houses on top of the trees. In this way they protect against insects, snakes, boars and enemies from other tribes. Over the years, their engineering skills have been shown in several documentaries: in 2011 an episode of Human Planet, produced by the BBC, detailed the construction of a house at the vertiginous height of 40 metres above the ground, and the move of a family to this new incredible dwelling.

The Korowai people are the perfect tribe, because they are cannibals.
They do not eat their enemies nor are into indiscriminate endocannibalism: they kill and devour only those who practice black magic.
When these people get an unknown disease, before dying they usually mention the name of the khakhua, the male witch who cast the curse on them. Then the relatives of the dead person capture the necromancer and chop him into pieces, distributing his meat among the village families.
In 2006 Paul Raffaele, an Australian adventure reporter and television personality, went among the Korowai people to save a little boy who was about to be cannibalized. The episode of 60 Minutes in which he recounted his expedition was watched by an extremely large audience. The intrepid reporter also wrote a report entitled “Sleeping With The Cannibals” for the prestigious Smithsonian Magazine; this article remains very popular to this day.

The Korowai people are the perfect tribe, because we still need the myth of the Savage.
We like to think that “out of time” tribes exist, crystallized in a prehistoric phase without experiencing any evolution or social transformation. This fable reassures us about our superiority, about our extraordinary capacity for progress. This is why we prefer the Savage to be naked, primitive, rude, or even animal-like, namely characterized by all those features we have abandoned.
Let us take the example of the tsantsa, the famous shrunken heads of the indios Shuar – Jibaros settled between Ecuador and Peru: before the arrival of white men, the natives sporadically produced very few of them. But Western explorers saw the tsantsa as the perfect macabre souvenir, and above all the emblem of the “primitive barbarity” of these tribes. It was only because of the growing demand for these artefacts that the Shuar and Achuar tribes started to organize raids among the neighbouring populations in order to stock up new heads, to shrunken and sell to white man in exchange for rifles.
When visiting museums of anthropology, only a few people realize that sometimes they are not at all looking at the artefacts from an ancient and faraway culture: they are admiring a fantasy, the idea of that culture created and built by Western people for themselves.

And what about the Korowai people, who live perched on trees like Tarzan?
In April this year, the BBC admitted that the house in the tree 40 metres above the ground, shown in the 2011 episode of Human Planet, was a fake.
Namely it was a sequence agreed upon with the natives, who were charged by the television crew of building a giant stilt house—which normally they wouldn’t have normally ever built. A member of the tribe declared that the house had been built “for the benefit of the producers of television shows overseas”: the traditional Korowai dwellings actually reached a maximum height of 5-10 metres above the ground.

© George Steinmetz

And the feasts with human meat?
Cannibalism as well hasn’t actually been practiced for countless decades. “Most of these groups have a ten-year experience in providing these stories [of cannibalism] to tourists” declared anthropologist Chris Ballard of the Australian National University.
Their life now depends on Western people driven to the jungle by their search for strong emotions. The Korowai people have learnt to give them what they want.
And if white people still need the Savage, here they are.

Robert Ripley

Una vita alla ricerca del bizzarro

Nato nel 1890, Robert Ripley aveva cominciato la sua carriera come fumettista, collaborando ad alcune strisce del New York Globe. All’età di 29 anni fece il suo primo viaggio intorno al mondo, e tornò completamente cambiato: la scoperta di culture differenti, località ed usanze esotiche l’aveva talmente intrigato che decise di dedicare la sua vita alla ricerca del bizzarro e dell’inusitato.


Così cambiò il titolo della sua striscia in Believe It Or Not! (“Che ci crediate o no!”), e attraverso i fumetti cominciò a raccontare le più strane e incredibili storie provenienti da tutto il mondo e ad illustrare i prodigi della natura meno conosciuti.


Il successo della rubrica crebbe vertiginosamente durante tutti gli anni ’20, e Ripley divenne presto una delle figure pubbliche più famose e conosciute; ma dietro a questo eclatante risultato c’era un altro uomo, che restò per sempre nell’ombra.

Infatti Ripley, deciso ad essere il più attendibile possibile, nel 1923 ingaggiò Norbert Pearlroth perché si occupasse della ricerca. Quest’uomo era uno studioso eccezionale e di sicuro uno dei maggiori artefici del successo della rubrica.

Norbert parlava 11 lingue, e lavorava 10 ore al giorno per sei giorni alla settimana restando chiuso nella sala di lettura della New York Public Library: si stima che abbia esaminato 7000 libri all’anno, rimanendo a lavorare nello staff di Believe It Or Not fino al 1975, leggendo un totale di più di 350.000 libri. Da contratto, doveva riuscire a trovare ogni settimana esattamente 24 curiosità da inserire nella rubrica, e lavorò praticamente in completo anonimato per tutta la sua vita.


Nel frattempo Ripley aveva stretto una collaborazione con il magnate della stampa William Hearst (quello a cui faceva il verso Orson Welles in Quarto potere, per intenderci), che aveva deciso di finanziare i suoi celebri viaggi attorno al mondo alla ricerca di stranezze e pezzi rari da collezione. Nel 1930 Believe It Or Not sbarcò alla radio, con uno show che sarebbe durato per 14 anni. Il pubblico cominciò a inviare migliaia di segnalazioni alla redazione, spesso raccontando di storie bizzarre accadute nel proprio circondario; le testimonianze erano tutte soppesate e verificate accuratamente (spesso da Pearlroth in persona) prima di venire pubblicate. Con i suoi 18 milioni di lettori in tutto il mondo, Ripley riceveva circa 3000 lettere alla settimana, tanto che si dice che la sua posta superasse per volume quella della Casa Bianca.


La popolarità di Ripley era alle stelle: la Warner Bros produsse perfino una dozzina di cortometraggi Believe It Or Not da proiettare prima dei film, nelle sale cinematografiche. Nel 1932 Ripley ha visitato ben 201 paesi del mondo. Decide allora di mettere in mostra l’impressionante quantità di stranezze che ha accumulato in tutti quei viaggi, ed apre il primo Odditorium a Chicago. Vi espone, fra vitelli a due teste impagliati, strumenti di tortura e feticci esotici, anche la sua collezione di tsantsa (le teste dei nemici “ristrette” dagli indios dell’Amazzonia) che è la più grande del mondo. Per metà wunderkammer e per metà sideshow, sospeso in un limbo sempre in bilico fra l’accuratezza di un antropologo culturale e la faccia tosta dell’imbonitore da fiera, l’Odditorium ha un immediato successo e in meno di 8 anni Ripley ne apre altri cinque in varie città degli Stati Uniti.


Durante la Seconda Guerra Mondiale Ripley smette di viaggiare e si dedica a opere di carità. Nel dopoguerra però torna alla carica con una mossa azzardata ma lungimirante: punta tutto sulla neonata televisione, e trasferisce il programma radiofonico su piccolo schermo, inaugurando la serie tv di Believe It Or Not. Fa in tempo a registrare 13 episodi, prima di morire per cancro nel 1949.


Oggi la franchise Believe It Or Not conta 32 musei in tutto il mondo (Bizzarro Bazar ha visitato quello di New York, in questo articolo), e la Ripley Entertainment Inc. è un colosso dell’intrattenimento: oltre a decine di parchi di divertimento, detiene a sua volta le franchise di Madame Tussauds e delle attrazioni relative al Guinness dei Primati. Con il marchio Ripley vengono pubblicati libri, calendari, poster, videogame, trasmissioni televisive… e, ancora oggi, la famosa striscia a fumetti da cui tutto ebbe inizio.

Bizzarro Bazar a New York – I

New York, Novembre 2011. È notte. Il vento gelido frusta le guance, s’intrufola fra i grattacieli e scende sulle strade in complicati vortici, senza che si possa prevedere da che parte arriverà la prossima sferzata. Anche le correnti d’aria sono folli ed esagerate, qui a Times Square, dove il tramonto non esiste, perché i maxischermi e le insegne brillanti degli spettacoli on-Broadway non lasciano posto alle ombre. Le basse temperature e il forte vento non fermano però il vostro esploratore del bizzarro, che con la scusa di una settimana nella Grande Mela, ha deciso di accompagnarvi alla scoperta di alcuni dei negozi e dei musei più stravaganti di New York.

Partiamo proprio da qui, da Times Square, dove un’insegna luminosa attira lo sguardo del curioso, promettendo meraviglie: si tratta del museo Ripley’s – Believe It Or Not!, una delle più celebri istituzioni mondiali del weird, che conta decine di sedi in tutto il mondo. Proudly freakin’ out families for 90 years! (“Spaventiamo le famiglie, orgogliosamente, da 90 anni”), declama uno dei cartelloni animati.

L’idea di base del Ripley’s sta proprio in quel “credici, oppure no”: si tratta di un museo interamente dedicato allo strano, al deviante, al macabro e all’incredibile. Ad ogni nuovo pezzo in esposizione sembra quasi che il museo ci sfidi a comprendere se sia tutto vero o se si tratti una bufala. Se volete sapere la risposta, beh, la maggior parte delle sorprendenti e incredibili storie raccontate durante la visita sono assolutamente vere. Scopriamo quindi le reali dimensioni dei nani e dei giganti più celebri, vediamo vitelli siamesi e giraffe albine impagliate, fotografie e storie di freak celebri.

Ma il tono ironico e fieramente “exploitation” di questa prima parte di museo lascia ben presto il posto ad una serie di reperti ben più seri e spettacolari; le sezioni antropologiche diventano via via più impressionanti, alternando vetrine con armi arcaiche a pezzi decisamente più macabri, come quelli che adornano le sale dedicate alle shrunken heads (le teste umane rimpicciolite dai cacciatori tribali del Sud America), o ai meravigliosi kapala tibetani.

Tutto ciò che può suscitare stupore trova posto nelle vetrine del museo: dalla maschera funeraria di Napoleone Bonaparte, alla pistola minuscola ma letale che si indossa come un anello, alle microsculture sulle punte di spillo.

Talvolta è la commistione di buffoneria carnevalesca e di inaspettata serietà a colpire lo spettatore. Ad esempio, in una pacchiana sala medievaleggiante, che propone alcuni strumenti di tortura in “azione” su ridicoli manichini, troviamo però una sedia elettrica d’epoca (vera? ricostruita?) e perfino una testa umana sezionata (questa indiscutibilmente vera). Il tutto per il giubilo dei bambini, che al Ripley’s accorrono a frotte, e per la perplessità dei genitori che, interdetti, non sanno più se hanno fatto davvero bene a portarsi dietro la prole.

Insomma, quello che resta maggiormente impresso del Ripley’s – Believe It Or Not è proprio questa furba commistione di ciarlataneria e scrupolo museale, che mira a confondere e strabiliare lo spettatore, lasciandolo frastornato e meravigliato.

Per tornare unpo’ con i piedi per terra, eccoci quindi a un museo più “serio” e “ufficiale”, ma di certo non più sobrio. Si tratta del celeberrimo American Museum of Natural History, uno dei musei di storia naturale più grandi del mondo – quello, per intenderci, in cui passava una notte movimentata Ben Stiller in una delle sue commedie di maggior successo.

Una giornata intera basta appena per visitare tutte le sale e per soffermarsi velocemente sulle varie sezioni scientifiche che meriterebbero ben più attenzione.

Oltre alle molte sale dedicate all’antropologia paleoamericana (ricostruzioni accurate degli utensili e dei costumi dei nativi, ecc.), il museo offre mostre stagionali in continuo rinnovo, una sala IMAX per la proiezione di filmati di interesse scientifico, un’impressionante sezione astronomica, diverse sale dedicate alla paleontologia e all’evoluzione dell’uomo, e infine la celebre sezione dedicata ai dinosauri (una delle più complete al mondo, amata alla follia dai bambini).

Ma forse i veri gioielli del museo sono due in particolare: il primo è costituito dall’ampio uso di splendidi diorami, in cui gli animali impagliati vengono inseriti all’interno di microambienti ricreati ad arte. Che si tratti di mammiferi africani, asiatici o americani, oppure ancora di animali marini, questi tableaux sono accurati fin nel minimo dettaglio per dare un’idea di spontanea vitalità, e da una vetrina all’altra ci si immerge in luoghi distanti, come se fossimo all’interno di un attimo raggelato, di fronte ad alcuni degli esemplari tassidermici più belli del mondo per precisione e naturalezza.

L’altra sezione davvero mozzafiato è quella dei minerali. Strano a dirsi, perché pensiamo ai minerali come materia fissa, inerte, e che poche emozioni può regalare – fatte salve le pietre preziose, che tanto piacciono alle signore e ai ladri cinematografici. Eppure, appena entriamo nelle immense sale dedicate alle pietre, si spalanca di fronte a noi un mondo pieno di forme e colori alieni. Non soltanto siamo stati testimoni, nel resto del museo, della spettacolare biodiversità delle diverse specie animali, o dei misteri del cosmo e delle galassie: ecco, qui, addirittura le pietre nascoste nelle pieghe della terra che calpestiamo sembrano fatte apposta per lasciarci a bocca aperta.

Teniamo a sottolineare che nessuna foto può rendere giustizia ai colori, ai riflessi e alle mille forme incredibili dei minerali esposti e catalogati nelle vetrine di questa sezione.

Alla fine della visita è normale sentirsi leggermente spossati: il Museo nel suo complesso non è certo una passeggiata rilassante, anzi, è una continua ginnastica della meraviglia, che richiede curiosità e attenzione per i dettagli. Eppure la sensazione che si ha, una volta usciti, è di aver soltanto graffiato la superficie: ogni aspetto di questo mondo nasconde, ora ne siamo certi, infinite sorprese.

(continua…)