Il babbuino ferroviere

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Sud Africa, 1880 circa.
Nello scompartimento di prima classe il caldo era soffocante.
Vicino al finestrino, ambrato dalla polvere esterna, sedeva una matrona sprofondata nelle sue trine e nei pesanti abiti scuri. Il ventaglio ricamato, con cui cercava un po’ di refrigerio, non conosceva riposo; la signora se lo passava da una mano all’altra non appena il polso si affaticava troppo.
Proprio mentre entravano nella stazione di Port Elizabeth, però, di colpo la sua intera figura si immobilizzò, come fosse diventata di sale, lo sguardo sbigottito fisso su un punto al di là del finestrino.
Boccheggiando, la signora cercò di trovare il fiato per dare l’allarme: infine un grido strozzato le uscì dalla gola: “Santo cielo! Mi è sembrato di vedere… c’è… c’è una scimmia che sta tirando le leve degli scambi ferroviari!”

Il treno continuò la sua crociera verso Cape Town senza problemi e, una volta sbarcata, la gentildonna allertò immediatamente le autorità ferroviarie dell’incresciosa e pericolosa scena a cui aveva assistito. All’inizio gli ufficiali erano piuttosto scettici riguardo alla storia di questa signora – una scimmia ai comandi della ferrovia? -, ma per dissipare qualsiasi dubbio ordinarono un’ispezione a Port Elizabeth. Quello che scoprirono li lasciò allibiti.

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Flashback a qualche anno prima.
Il casellante responsabile in quella stazione era un certo James Edwin “Jumper” Wide. Il soprannome, Jumper, non se l’era guadagnato per caso: per spostarsi velocemente all’interno della stazione, James aveva l’abitudine di saltare da un vagone all’altro finché erano in movimento, certe volte perfino da treno a treno. Un pomeriggio, mentre eseguiva uno di questi stunt che l’avevano reso celebre, il piede lo tradì e James cadde sotto le ruote del treno. Il convoglio gli tranciò di netto entrambe le gambe.

Una volta ripresosi, James comprese subito che, oltre alle gambe, quell’incidente gli avrebbe portato via anche il lavoro: come avrebbe potuto continuare ad essere utile alla Cape Government Railway? Il capostazione non si diede per vinto. Si costruì due gambe di legno su cui poter ricominciare a camminare, e prese a spostarsi seduto su un carrello abbastanza basso da essere spinto a forza di braccia. Ma, anche così, il suo lavoro divenne estremamente faticoso, e correre alle leve degli scambi ferroviari per rispondere in tempo al fischio dei treni in arrivo era un’impresa.

Un giorno James si stava aggirando per un mercato locale, quando vide un babbuino nero che guidava una carrozza. L’orgoglioso proprietario gli mostrò tutte le cose che l’intelligente primate era in grado di fare, e d’un tratto James si convinse che quel babbuino poteva davvero essere la soluzione ai suoi problemi. Acquistò l’animale, e lo portò a vivere con sé nella sua modesta abitazione, a mezzo miglio dalla stazione ferroviaria.

In breve tempo James e il babbuino (battezzato Jack) divennero amici inseparabili. James insegnò al primate a fare un po’ di pulizia in giro per casa, a ramazzare il pavimento della cucina, e via dicendo. Jack era anche un’ottima sentinella, e faceva da guardia al cottage intimorendo i visitatori indesiderati con le sue grida, e sfoggiando le sue temibili mascelle.

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Ogni mattina James si accomodava sul suo carrello, e Jack lo spingeva fino alla stazione ferroviaria. Ma il babbuino apprese presto ad aiutare il suo amato padrone anche sul lavoro.
Ogni volta che un macchinista era in arrivo, e aveva bisogno di carbone, faceva fischiare la locomotiva per quattro volte. James allora consegnava a Jack la chiave che sbloccava gli snodi per i depositi di carbone, e il solerte aiutante si occupava di aprire la scatola dei comandi. Si girava poi verso il padrone, aspettando il suo segnale: quando James abbassava il dito, il primate tirava infallibilmente le leve corrette. Il babbuino guardava addirittura verso il treno in arrivo per assicurarsi che il segnale relativo al binario fosse effettivamente cambiato, e si godeva il passaggio del convoglio nella giusta direzione. Evidentemente, quella mansione divertiva molto l’animale, e gli regalava una particolare soddisfazione.

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L’impeccabile lavoro di squadra di James e Jack continuò per diversi anni, fino all’ispezione di cui raccontavamo all’inizio, scattata in seguito alla denuncia della facoltosa passeggera. Una volta scoperto che era effettivamente un babbuino a comandare gli scambi, la società licenziò in tronco James. Ancora una volta, però, il capostazione non volle demordere.
Fece ricorso alle autorità ferroviarie, chiedendo che le abilità del suo babbuino venissero testate e valutate come quelle di qualsiasi impiegato della compagnia. Il manager, incredibilmente, accettò: vennero organizzate delle prove, in cui alcuni macchinisti fischiavano al loro arrivo in stazione – e di fronte agli occhi sorpresi degli ispettori, il primate non ebbe alcun problema nell’operare le leve alla perfezione.

Impressionati, i responsabili decisero di ridare nuovamente a “Jumper” James l’incarico di capostazione, e assunsero Jack come suo assistente, garantendo al babbuino le stesse razioni di cibo dei normali lavoratori, e perfino una piccola quantità di brandy al giorno. Aveva anche un numero lavoro, proprio come gli altri dipendenti della ferrovia.
Negli anni Jack The Signalman divenne una piccola celebrità, e spesso frotte di curiosi si attardavano a vedere all’opera l’improbabile casellante.

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Jack morì nel 1890 di tubercolosi, dopo nove anni di onorato lavoro. All’Albany Museum di Grahamston è ancora possibile vedere il suo teschio, a memoria dell’unico babbuino della storia ad essere stato regolarmente assunto da una società ferroviaria.

Viaggi spaziali

L’esplorazione spaziale, iniziata in modo pionieristico alla fine degli anni ’60, ha conosciuto un momento “morto” negli ultimi decenni, ma oggi sta tornando ad essere parte integrante dei progetti delle grandi agenzie aerospaziali. Gli Stati Uniti hanno pianificato i primi viaggi su Marte per la metà degli anni 2030; ESA, Russia e Cina sembra abbiano in progetto missioni similari. Ma al di là dello stimolo che questi salti nell’ignoto regalano alla nostra fantasia, ci sono dei lati oscuri con cui fare i conti (che sono poi quelli che ci interessano, qui a Bizzarro Bazar!).

Innanzitutto, teniamo presente che le enormi distanze da superare pongono diversi grattacapi. Prendiamo ad esempio una missione su Marte. Il vero problema, sostengono i professori della NASA, sarebbe il costo del “biglietto” di ritorno. Far decollare una nave spaziale dalla Terra richiede già una quantità di carburante inimmaginabile, e dotare il mezzo di una quantità di combustibile tale da permettere il viaggio di rientro è al momento pura utopia. Questo significa che il volo verso Marte sarebbe di sola andata. I primi pionieri dovrebbero divenire dei veri e propri coloni, disposti non soltanto ad esplorare il nuovo pianeta, ma a fondarvi una comunità. Dovrebbero essere scelte coppie in grado di riprodursi, per dar vita alla prima vera colonia marziana che comprenda bambini nati e cresciuti sul Pianeta Rosso. Quanti di voi non esiterebbero un attimo a lasciarsi tutto alle spalle per iniziare una nuova vita su Marte? Quale uomo accetterebbe di partire sereno, sapendo che non farà mai più ritorno, che non vedrà mai più il mare, i suoi famigliari, gli uccelli nel cielo?

Parecchi, a quanto sembra. Da quando il Journal of Cosmology ha indetto il “sondaggio”, almeno 500 volontari si sono presentati all’appello. Persone per cui l’avventura, la curiosità e la gloria valgono più di ogni altra cosa; persone che non hanno più nessun legame; persone che sognano un’epopea spaziale da quando hanno 10 anni. Forse sarà proprio questo il bacino al quale gli scienziati attingeranno, in un prossimo futuro, per selezionare gli equipaggi di questa epocale “invasione”.

Ma i viaggi spaziali sono anche lunghi, e il lato più cupo della nostra personalità può prendere il sopravvento. Lo spazio può diventare una gabbia fatta di paranoie, illusioni e depressione, fatto da cui gli scrittori di fantascienza ci mettono in guardia da molti anni. Innanzitutto, la solitudine. Una solitudine inimmaginabile. Finora i viaggi sono stati troppo brevi per una qualche manifestazione psicologica in questo senso. Ma la NASA continua a ponderare gli effetti dannosi dell’isolamento per lunghi periodi di tempo, tanto da investire 1,74 milioni di dollari nella Virtual Space Station, una sorta di “psicologo-robot” che dovrebbe aiutare e dare consigli agli astronauti depressi dalla profonda solitudine. Nel 2008, uno studio condotto al NHC HealthCare in Maryland Heights ha indicato che un cane robotico si è rivelato un ottimo rimedio per la solitudine dele persone anziane, quasi quanto un cucciolo reale… anche se l’immagine di un astronauta solo nello spazio, che parla e coccola un cane-robot non è delle più confortanti.

Nello spazio, un posto che a torto riteniamo “vuoto”, si spargono radiazioni di vario tipo. Senza la protezione dell’atmosfera, queste radiazioni possono essere pericolose. E non si tratta qui soltanto delle temibili esplosioni di raggi gamma (evento talmente raro da essere trascurabile), ma anche semplicemente delle più comuni radiazioni cosmiche: alcuni esperimenti hanno dimostrato che l’esposizione a questi raggi può causare alterazioni nell’ippocampo, l’area del cervello responsabile della creazione di nuove cellule cerebrali e ritenuta responsabile dell’apprendimento e degli stati di umore. Proteggere con scudi appropriati gli astronauti potrebbe significare ridurre i danni cerebrali e la depressione di un viaggio al di fuori dell’orbita terrestre.

Un altro problema dei viaggi astrali è la fornitura e la purificazione dell’aria. Molti studi condotti sugli scalatori di alta quota hanno dimostrato come uno scarso approvvigionamento di ossigeno porti a un calo di attenzione, di capacità cognitiva e di riconoscimento linguistico. In situazioni ancora più estreme, a ridotto apporto di ossigeno, si verificano danni permanenti al cervello. Per questo si stanno dotando le astronavi di potenti rilevatori, in grado di accorgersi in largo anticipo di un cambio nell’aria della capsula. Vengono sviluppati anche dei software in grado di “misurare” la coerenza delle risposte degli astronauti a determinate domande, per prevenire eventuali danni psichici.

Aggiungete a questo quadro lo stress del lavoro di un astronauta, costantemente vigile e attento, che deve tenere sott’occhio i parametri della missione, controllare l’equipaggiamento, sapendo che soltanto un po’ di lamiera lo protegge dall’agghiacciante vuoto siderale. Molte persone, in situazioni molto meno stressanti, si imbottiscono di psicofarmaci. L’uso e l’abuso di tali sostanze (già oggi utilizzate a bordo delle stazioni spaziali) sarà un ennesimo grattacapo da risolvere. E pensate anche solo per un momento a questa situazione: non siete voi a impazzire nello spazio, ma il vostro collega. Se nella vostra giornata quotidiana c’è sempre un orario di fine lavoro, che vi permette di staccare la spina, beh, su una navicella spaziale non esiste. Per quanto professionali gli astronauti si possano dimostrare, dovranno anche essere addestrati a far fronte a qualsiasi imprevisto, persino il crollo psicologico di uno dei membri dell’equipaggio.

Ed arriviamo infine alla questione più spinosa e difficile. Cosa fare quando un astronauta muore nello spazio?

La mitica Mary Roach, giornalista scientifica autrice dell’imperdibile Stecchiti (2005), ha da poco scritto un libro sui viaggi spaziali. Con la sua consueta scrupolosa curiosità, ha indagato anche il problema della morte nello spazio. E ci ha illuminato sulle ultime tendenze della NASA al riguardo.

La morte, già di per sé destabilizzante, diviene ancora più insostenibile in un ambiente estremo come il cosmo. Nessuno sa come un piccolo gruppo isolato nello spazio possa reagire di fronte alla scomparsa di un membro: sentimenti di paura, perdita di controllo, rabbia, colpa o attribuzione di colpa possono instaurarsi. Di fronte a un decesso che colpisce inaspettatamente un membro dell’equipaggio durante una missione, il tempo per preparare il corpo sarà soltanto di 24 ore, per prevenire infezioni. Ad ogni astronauta verrà chiesto di riempire un diario in cui annotare e sfogare le proprie emozioni al riguardo.  Il corpo, dopo una cerimonia funebre che ricordi quelle terrestri (che serva da guida per la difficile situazione e riaffermi i valori che ci accomunano), verrà deposto in un modulo apposito, studiato per eseguire la cosiddetta Promession: si tratta di un “compostaggio” ecologico dei resti umani, per mezzo del quale il corpo viene completamente congelato, poi scosso violentemente fino a ridurre la salma in una fine polverina. La capsula contenente il cadavere polverizzato verrà poi estromessa dall’astronave, là dove nessuno può vederla, trattenuta da un braccio meccanico, e lì resterà fino a quando l’astronave non rientrerà sulla Terra (ritraendosi poco prima dell’impatto con l’atmosfera); una volta atterrata potrà finalmente avere degna sepoltura. Una particolare attenzione verrà mantenuta sui “sopravvissuti”, per evitare crolli psicologici e follia.

Ecco l’articolo di Mary Roach in cui viene spiegata l’intera procedura (in inglese).

Il sogno di “fare l’astronauta” non ha mai perso il suo fascino. Ma oggi, quando questa fantasia sta quasi per diventare realtà, gli scienziati continuano a interrogarsi su quali siano le vere barriere con cui dovremo fare i conti. E pare che i mostri più pericolosi, gli alieni più letali, prenderanno corpo nella nostra stessa mente.