Links, curiosities & mixed wonders – 4

As I am quite absorbed in the Academy of Enchantment, which we just launched, so you will forgive me if I fall back on a new batch of top-notch oddities.

  • Remember my article on smoked mummies? Ulla Lohmann documented, for the first time ever, the mummification process being carried out on one of the village elders, a man the photographer knew when he was still alive. The story of Lohmann’s respectful stubbornness in getting accepted by the tribe, and the spectacular pictures she took, are now on National Geographic.

  • Collective pyres burning for days in an unbearable stench, teeth pulled out from corpses to make dentures, bones used as fertilizers: welcome to the savage world of those who had to clean up Napoleonic battlefields.
  • Three miles off the Miami coast there is a real underwater cemetery. Not many of your relatives will take scuba lessons just to pay their last respects, but on the other hand, your grave will become part of the beautiful coral reef.

  • This one is for those of you acquainted with the worst Italian TV shows. In one example of anaesthetic television — comforting and dull, offering the mirage of an effortless win, a fortune that comes out of nowhere — the host randomly calls a phone number, and if the call is picked up before the fifth ring then a golden watch is awarded to the receiver. But here’s where the subversive force of memento mori comes in: in one of the latest episodes, an awkward surprise awaited the host. “Is this Mrs. Anna?” “No, Mrs. Anna just died.“, a voice replies.
    For such a mindless show, this is the ultimate ironic defeat: the embarassed host cannot help mumbling, “At this point, our watch seems useless…

  • How can we be sure that a dead body is actually dead? In the Nineteenth Century this was a major concern. That is why some unlucky workers had to pull cadaver tongues, while others tried to stick dead fingers into their own ears; there were those who even administered tobacco enemas to the dead… by blowing through a pipe.
  • What if Monty Python were actually close to the truth, in their Philosphers Song portraying the giants of thought as terminal drunkards? An interesting long read on the relationship between Western philosophy and the use of psychoactive substances.
  • If you haven’t seen it, there is a cruel radiography shattering the self-consolatory I-am-just-big-boned mantra.

  • Man will soon land on Mars, likely. But in addition to bringing life on the Red Planet, we will also bring another novelty: death. What would happen to a dead body in a Martian atmosphere, where there are no insects, no scavengers or bacteria? Should we bury our dead, cremate them or compost them? Sarah Laskow on AtlasObscura.
  • In closing, here is a splendid series of photographs entitled Wilder Mann. All across Europe, French photographer Charles Fréger documented dozens of rural masquerades. Creepy and evocative, these pagan figures stood the test of time, and for centuries now have been annoucing the coming of winter.

Robert Ripley

Una vita alla ricerca del bizzarro

Nato nel 1890, Robert Ripley aveva cominciato la sua carriera come fumettista, collaborando ad alcune strisce del New York Globe. All’età di 29 anni fece il suo primo viaggio intorno al mondo, e tornò completamente cambiato: la scoperta di culture differenti, località ed usanze esotiche l’aveva talmente intrigato che decise di dedicare la sua vita alla ricerca del bizzarro e dell’inusitato.


Così cambiò il titolo della sua striscia in Believe It Or Not! (“Che ci crediate o no!”), e attraverso i fumetti cominciò a raccontare le più strane e incredibili storie provenienti da tutto il mondo e ad illustrare i prodigi della natura meno conosciuti.


Il successo della rubrica crebbe vertiginosamente durante tutti gli anni ’20, e Ripley divenne presto una delle figure pubbliche più famose e conosciute; ma dietro a questo eclatante risultato c’era un altro uomo, che restò per sempre nell’ombra.

Infatti Ripley, deciso ad essere il più attendibile possibile, nel 1923 ingaggiò Norbert Pearlroth perché si occupasse della ricerca. Quest’uomo era uno studioso eccezionale e di sicuro uno dei maggiori artefici del successo della rubrica.

Norbert parlava 11 lingue, e lavorava 10 ore al giorno per sei giorni alla settimana restando chiuso nella sala di lettura della New York Public Library: si stima che abbia esaminato 7000 libri all’anno, rimanendo a lavorare nello staff di Believe It Or Not fino al 1975, leggendo un totale di più di 350.000 libri. Da contratto, doveva riuscire a trovare ogni settimana esattamente 24 curiosità da inserire nella rubrica, e lavorò praticamente in completo anonimato per tutta la sua vita.


Nel frattempo Ripley aveva stretto una collaborazione con il magnate della stampa William Hearst (quello a cui faceva il verso Orson Welles in Quarto potere, per intenderci), che aveva deciso di finanziare i suoi celebri viaggi attorno al mondo alla ricerca di stranezze e pezzi rari da collezione. Nel 1930 Believe It Or Not sbarcò alla radio, con uno show che sarebbe durato per 14 anni. Il pubblico cominciò a inviare migliaia di segnalazioni alla redazione, spesso raccontando di storie bizzarre accadute nel proprio circondario; le testimonianze erano tutte soppesate e verificate accuratamente (spesso da Pearlroth in persona) prima di venire pubblicate. Con i suoi 18 milioni di lettori in tutto il mondo, Ripley riceveva circa 3000 lettere alla settimana, tanto che si dice che la sua posta superasse per volume quella della Casa Bianca.


La popolarità di Ripley era alle stelle: la Warner Bros produsse perfino una dozzina di cortometraggi Believe It Or Not da proiettare prima dei film, nelle sale cinematografiche. Nel 1932 Ripley ha visitato ben 201 paesi del mondo. Decide allora di mettere in mostra l’impressionante quantità di stranezze che ha accumulato in tutti quei viaggi, ed apre il primo Odditorium a Chicago. Vi espone, fra vitelli a due teste impagliati, strumenti di tortura e feticci esotici, anche la sua collezione di tsantsa (le teste dei nemici “ristrette” dagli indios dell’Amazzonia) che è la più grande del mondo. Per metà wunderkammer e per metà sideshow, sospeso in un limbo sempre in bilico fra l’accuratezza di un antropologo culturale e la faccia tosta dell’imbonitore da fiera, l’Odditorium ha un immediato successo e in meno di 8 anni Ripley ne apre altri cinque in varie città degli Stati Uniti.


Durante la Seconda Guerra Mondiale Ripley smette di viaggiare e si dedica a opere di carità. Nel dopoguerra però torna alla carica con una mossa azzardata ma lungimirante: punta tutto sulla neonata televisione, e trasferisce il programma radiofonico su piccolo schermo, inaugurando la serie tv di Believe It Or Not. Fa in tempo a registrare 13 episodi, prima di morire per cancro nel 1949.


Oggi la franchise Believe It Or Not conta 32 musei in tutto il mondo (Bizzarro Bazar ha visitato quello di New York, in questo articolo), e la Ripley Entertainment Inc. è un colosso dell’intrattenimento: oltre a decine di parchi di divertimento, detiene a sua volta le franchise di Madame Tussauds e delle attrazioni relative al Guinness dei Primati. Con il marchio Ripley vengono pubblicati libri, calendari, poster, videogame, trasmissioni televisive… e, ancora oggi, la famosa striscia a fumetti da cui tutto ebbe inizio.

Korla Pandit

Nel 1948, la televisione era nata da poco ma già migliaia di persone ne possedevano una. Quello fu l’anno in cui, negli Stati Uniti, cominciò la prima vera e propria programmazione televisiva, e fra i vari spettacoli offerti da questa magica e strana scatola delle meraviglie ce n’era uno davvero unico: lo show di Korla Pandit.

Chi all’epoca era bambino, e per la prima volta accese la televisione in quell’anno, lo ricorda ancora: occhi magnetici, turbante bianco impreziosito di rubini, sorriso dolce ed enigmatico, dita affusolate e abilissime. Di quest’uomo dai lineamenti indiani si conosceva molto poco, la sua vita era già un mistero. Si diceva fosse nato a Nuova Delhi, figlio di un brahmino e di una cantante lirica francese, e che avesse in seguito abbandonato l’India per studiare musica in Inghilterra, e infine a Chicago. Durante  il suo spettacolo, intitolato Korla Pandit’s Adventures In Music, egli suonava un organo Hammond e un pianoforte a coda Steinway (spesso contemporaneamente) proponendo particolari arrangiamenti di melodie esotiche e mediorientali. Il suo modo di utilizzare l’Hammond in maniera “percussiva” gli permetteva di eseguire da solo la base ritmica, rendendolo un vero e proprio one-man-band.

Ma non erano soltanto le sue abilità pianistiche ad affascinare gli spettatori. Certo, le atmosfere romantiche e misteriose delle sue melodie erano pressoché inedite per l’epoca; e facevano la loro parte anche le scenografie arabeggianti puntellate di orchidee, con nubi rischiarate dalla luna che venivano proiettate alle spalle del musicista… eppure l’elemento vincente era proprio l’alone di mistero che circondava Korla. Durante lo show, egli non pronunciava mai una sola parola. Comunicava attraverso il “linguaggio universale della musica”, come avvertiva la voce narrante nell’introduzione. E, soprattutto, guardava in camera, verso gli spettatori, con un misto di serenità e saggezza, ma anche di malizia… lo sguardo penetrante di un mago che conosce i segreti della seduzione, e sa usare le note per aprire qualsiasi cuore femminile.

E, infatti, sembra che molte donne fossero letteralmente impazzite per quegli occhi sibillini. Si dice che gli spedissero regali sempre più costosi, in una vera e propria frenesia d’amore. Con il suo sguardo magnetico, Korla di certo sapeva sfruttare il potere ancora sconosciuto della scatola magica, la televisione. La leggenda vuole che migliaia di padri spaventati, e di mariti furibondi, si fossero convinti che Pandit stesse davvero ipnotizzando, attraverso la TV, le consorti e le figlie. Scrissero rabbiose lettere all’emittente KTLA, fino a spingere la rete a cancellare lo show dell’indiano. Nel 1953 Korla Pandit, all’apice della popolarità, viene licenziato dall’emittente. Passerà il resto della vita nell’anonimato, dando lezioni di musica, suonando in piccoli club, inaugurando concessionari d’auto e supermarket. Nessuno più si ricorda di lui, tranne Tim Burton che nel 1994, per il film Ed Wood, gli affida un cameo/omaggio nel ruolo di se stesso. Negli ultimi anni della sua vita, trova un piccolo ritorno di carriera grazie ai revival di musica lounge ed esotica, ma ormai si sta facendo anziano: la leggenda svanisce.

Eppure pochi sanno che quella leggenda nasconde un sorprendente segreto. Korla non è affatto indiano. Era nato a St. Louis, nel Missouri, ed era afroamericano: si chiamava John Roland Redd. A quell’epoca, per un uomo di colore non era facile sfondare nello show business; così nel 1948, assieme alla moglie Beryl (artista dello studio Disney), decise di inventarsi un personaggio che potesse essere maggiormente accettato e, al contempo, abbastanza misterioso da avere successo. E fa la mossa giusta: la televisione, ai suoi albori, aveva già di per sé una qualità magnetica che oggi non possiamo nemmeno immaginare, e lo show di Korla faceva leva su questo magnetismo, innalzandolo ai massimi livelli, e portando in migliaia di case una dimensione di sogno, sensuale e romantica, un’atmosfera magica e sospesa.

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Korla Pandit muore nel 1998, all’ipotetica età di 77 anni: ipotetica, perché quando glielo chiedevano rispondeva sempre, con un enigmatico sorriso, di avere intorno ai 2000 anni.

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Il sito dedicato a Korla Pandit.

Happy Tree Friends

Con 12 anni e più di 160 episodi alle spalle, gli Happy Tree Friends sono ormai uno show classico, benché tuttora controverso, che ha segnato la storia di Internet e della televisione. Nati nel 1999 dalla fantasia di Kenn Navarro e Rhode Montijo, inizialmente erano stati pensati come dei piccoli corti realizzati in Flash, esclusivamente per la rete. I due animatori lavoravano per Mondo Mini Shows, ed erano entusiasti di avere ottenuto la loro prima serie; nessuno però si sarebbe aspettato il successo clamoroso che gli “amici dell’albero felice” avrebbero ottenuto.

L’idea era semplice: creare un mondo da libro animato per bambini, coloratissimo e pieno di allegri e teneri animaletti antropomorfi, sempre entusiasti e felici. E poi massacrarli tutti nei modi più violenti, fantasiosi ed efferati. Ma tranquilli, bambini… li ritroveremo nella puntata successiva sani ed integri, pronti a farsi macellare in una nuova sanguinosa circostanza.

Questo concept, politicamente scorretto ed esilarante, sarebbe rimasto soltanto una piccola burla se Navarro non avesse avuto un’immaginazione sfrenata e particolarmente weird: a distanza di tanti anni, le soluzioni visive adottate per far fuori l’uno dopo l’altro i simpatici personaggi sono ancora sorprendenti e spesso imprevedibili. Poco dopo il loro debutto sulla rete, nel 2000, fu chiaro che in brevissimo tempo questa serie si stava trasformando in un fenomeno di culto.

Ogni episodio raggiunse in poco tempo i 15 milioni di visualizzazioni, e ben presto la Happy Tree Friends mania raggiunse il suo apice. La serie venne acquistata dalle televisioni, cominciò a guadagnarsi premi nei festival specializzati, venne infine distribuita in cofanetti DVD. Tra i 22 personaggi di Happy Tree Friends, quelli ricorrenti (chiamiamoli le “star” principali) sono ormai diffusi anche come gadget di ogni tipo nei negozi di fumetti. L’affetto dei fan non accenna a diminuire nel tempo, tanto che uno degli amministratori della Mondo Media arriva a paragonare lo show ai grandi classici: “Penso che i bambini guarderanno gli Happy Tree Friends fra 20 o 30 anni nello stesso modo in cui guardano Tom & Jerry oggi”.

Ecco, appunto, i bambini. La serie evidentemente è pensata per un pubblico adulto, ma molti bambini hanno finito per diventare degli appassionati fruitori di questo show. La controversia in America si è scatenata quando alcuni preoccupati genitori hanno scoperto che i colorati cartoni animati che i figlioletti stavano guardando terminavano invariabilmente con una carneficina. In Canada si è rischiata la censura, nonostante lo show presenti la violenza in maniera comica ed eccessiva. Ma per una serie iconoclasta come gli Happy Tree Friends, ovviamente, ogni scandalo fa buon gioco.

Eccovi alcuni classici episodi, fra i più celebri.

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