Il fornaio di Hannibal Lecter

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(Articolo a cura del nostro guestblogger Andrea Ferreri)

Il suo negozio si chiama Body Bakery, cioè la “panetteria dei corpi”. Se volete visitarla, dovete fare un po’ di strada, perché è a Ratchabury, a 100 km da Bangkok, in Thailandia. Il fornaio si chiama Kittiwat Unarrom, ha 35 anni, e, quando andate a trovarlo nel suo negozio, vi arriva subito la sensazione di essere capitati nel rifugio di un serial killer: nelle vetrine sono in esposizione teste, braccia, mani, intestini, attaccati a ganci come se fossero pezzi di carne in esposizione in una macelleria.

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Kittiwat li rende simili al vero grazie alla sua abilità nel manipolare acqua e farina, cui aggiunge però cioccolato, resine e coloranti tutti naturali, uvetta, anacardi e gli altri seducenti sapori cui siamo abituati nelle nostre città. Insomma, quei rimasugli di corpi li potete anche mangiare: basta solo superare l’idea che siete diventati cannibali.

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L’idea di produrre un pane così raccapricciante nasce da una massima buddista secondo la quale “ciò che vedi potrebbe non essere vero quanto ciò che pensi”. E, infatti, quelli che sembrano i resti di un massacro nascondono la fragranza e la freschezza del pane, alimento della vita. «Quando i miei clienti vedono i miei lavori – racconta Kittiwat – scappano via, non vogliono nemmeno provare a mangiarli. Però, se li assaggiano, scoprono che sono solo pane e ne traggono una lezione: mai giudicare dalle apparenze!».

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La food art fa parte della cultura artistica asiatica: in Thailandia c’è una vera e propria scuola di scultori di frutta che producono capolavori, per esempio, lavorando su un cocomero. Ma c’è anche una vicinanza profonda, antropologica, dello spirito thai alla morte (ne trovate un esempio in questo articolo). Così, il “fornaio di Hannibal Lecter” realizza le sue opere in perfetta sintonia con il suo ambiente culturale. Ma intorno a lui fioccano le leggende: si dice che suo padre lavorasse all’obitorio di Bangkok e che Kittiwat abbia passato la vita dividendosi tra il forno di famiglia e i cadaveri dimenticati sui tavoli di marmo della morgue.

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È quasi tutto vero. Kittiwat viene da una famiglia di fornai e ha imparato a fare il pane a 10 anni, ma dal 2006, quando cioè si è laureato in Belle Arti e ha cominciato a realizzare le sue sculture “alimentari”, il suo mestiere si è trasformato in qualcosa di più raffinato, in uno strano, irrituale tentativo di raccontare il proprio mondo religioso. Si è documentato studiando libri di medicina, visitando musei anatomici e ha conquistato una straordinaria conoscenza dei suoi materiali base: l’acqua e la farina. Le sue opere sono incredibilmente somiglianti al vero, perturbanti e violente, ma non sono pensate soltanto con l’intenzione di creare disagio. Incartando i suoi lavori come se fossero alimenti (e di fatto lo sono), Kittiwat mette i clienti di fronte al loro lato oscuro, alla capacità di vedere la morte non più come un evento dal quale fuggire, ma come qualcosa da mangiare. Peccato però che questo aspetto sia passato in secondo piano: negli ultimi anni, anche grazie alla celebrità regalata da internet, lo spettacolo horror del suo obitorio commestibile è diventato un’attrazione turistica che potete trovare perfino nelle guide.

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Bizzarro Bazar a New York – I

New York, Novembre 2011. È notte. Il vento gelido frusta le guance, s’intrufola fra i grattacieli e scende sulle strade in complicati vortici, senza che si possa prevedere da che parte arriverà la prossima sferzata. Anche le correnti d’aria sono folli ed esagerate, qui a Times Square, dove il tramonto non esiste, perché i maxischermi e le insegne brillanti degli spettacoli on-Broadway non lasciano posto alle ombre. Le basse temperature e il forte vento non fermano però il vostro esploratore del bizzarro, che con la scusa di una settimana nella Grande Mela, ha deciso di accompagnarvi alla scoperta di alcuni dei negozi e dei musei più stravaganti di New York.

Partiamo proprio da qui, da Times Square, dove un’insegna luminosa attira lo sguardo del curioso, promettendo meraviglie: si tratta del museo Ripley’s – Believe It Or Not!, una delle più celebri istituzioni mondiali del weird, che conta decine di sedi in tutto il mondo. Proudly freakin’ out families for 90 years! (“Spaventiamo le famiglie, orgogliosamente, da 90 anni”), declama uno dei cartelloni animati.

L’idea di base del Ripley’s sta proprio in quel “credici, oppure no”: si tratta di un museo interamente dedicato allo strano, al deviante, al macabro e all’incredibile. Ad ogni nuovo pezzo in esposizione sembra quasi che il museo ci sfidi a comprendere se sia tutto vero o se si tratti una bufala. Se volete sapere la risposta, beh, la maggior parte delle sorprendenti e incredibili storie raccontate durante la visita sono assolutamente vere. Scopriamo quindi le reali dimensioni dei nani e dei giganti più celebri, vediamo vitelli siamesi e giraffe albine impagliate, fotografie e storie di freak celebri.

Ma il tono ironico e fieramente “exploitation” di questa prima parte di museo lascia ben presto il posto ad una serie di reperti ben più seri e spettacolari; le sezioni antropologiche diventano via via più impressionanti, alternando vetrine con armi arcaiche a pezzi decisamente più macabri, come quelli che adornano le sale dedicate alle shrunken heads (le teste umane rimpicciolite dai cacciatori tribali del Sud America), o ai meravigliosi kapala tibetani.

Tutto ciò che può suscitare stupore trova posto nelle vetrine del museo: dalla maschera funeraria di Napoleone Bonaparte, alla pistola minuscola ma letale che si indossa come un anello, alle microsculture sulle punte di spillo.

Talvolta è la commistione di buffoneria carnevalesca e di inaspettata serietà a colpire lo spettatore. Ad esempio, in una pacchiana sala medievaleggiante, che propone alcuni strumenti di tortura in “azione” su ridicoli manichini, troviamo però una sedia elettrica d’epoca (vera? ricostruita?) e perfino una testa umana sezionata (questa indiscutibilmente vera). Il tutto per il giubilo dei bambini, che al Ripley’s accorrono a frotte, e per la perplessità dei genitori che, interdetti, non sanno più se hanno fatto davvero bene a portarsi dietro la prole.

Insomma, quello che resta maggiormente impresso del Ripley’s – Believe It Or Not è proprio questa furba commistione di ciarlataneria e scrupolo museale, che mira a confondere e strabiliare lo spettatore, lasciandolo frastornato e meravigliato.

Per tornare unpo’ con i piedi per terra, eccoci quindi a un museo più “serio” e “ufficiale”, ma di certo non più sobrio. Si tratta del celeberrimo American Museum of Natural History, uno dei musei di storia naturale più grandi del mondo – quello, per intenderci, in cui passava una notte movimentata Ben Stiller in una delle sue commedie di maggior successo.

Una giornata intera basta appena per visitare tutte le sale e per soffermarsi velocemente sulle varie sezioni scientifiche che meriterebbero ben più attenzione.

Oltre alle molte sale dedicate all’antropologia paleoamericana (ricostruzioni accurate degli utensili e dei costumi dei nativi, ecc.), il museo offre mostre stagionali in continuo rinnovo, una sala IMAX per la proiezione di filmati di interesse scientifico, un’impressionante sezione astronomica, diverse sale dedicate alla paleontologia e all’evoluzione dell’uomo, e infine la celebre sezione dedicata ai dinosauri (una delle più complete al mondo, amata alla follia dai bambini).

Ma forse i veri gioielli del museo sono due in particolare: il primo è costituito dall’ampio uso di splendidi diorami, in cui gli animali impagliati vengono inseriti all’interno di microambienti ricreati ad arte. Che si tratti di mammiferi africani, asiatici o americani, oppure ancora di animali marini, questi tableaux sono accurati fin nel minimo dettaglio per dare un’idea di spontanea vitalità, e da una vetrina all’altra ci si immerge in luoghi distanti, come se fossimo all’interno di un attimo raggelato, di fronte ad alcuni degli esemplari tassidermici più belli del mondo per precisione e naturalezza.

L’altra sezione davvero mozzafiato è quella dei minerali. Strano a dirsi, perché pensiamo ai minerali come materia fissa, inerte, e che poche emozioni può regalare – fatte salve le pietre preziose, che tanto piacciono alle signore e ai ladri cinematografici. Eppure, appena entriamo nelle immense sale dedicate alle pietre, si spalanca di fronte a noi un mondo pieno di forme e colori alieni. Non soltanto siamo stati testimoni, nel resto del museo, della spettacolare biodiversità delle diverse specie animali, o dei misteri del cosmo e delle galassie: ecco, qui, addirittura le pietre nascoste nelle pieghe della terra che calpestiamo sembrano fatte apposta per lasciarci a bocca aperta.

Teniamo a sottolineare che nessuna foto può rendere giustizia ai colori, ai riflessi e alle mille forme incredibili dei minerali esposti e catalogati nelle vetrine di questa sezione.

Alla fine della visita è normale sentirsi leggermente spossati: il Museo nel suo complesso non è certo una passeggiata rilassante, anzi, è una continua ginnastica della meraviglia, che richiede curiosità e attenzione per i dettagli. Eppure la sensazione che si ha, una volta usciti, è di aver soltanto graffiato la superficie: ogni aspetto di questo mondo nasconde, ora ne siamo certi, infinite sorprese.

(continua…)

Progetto MKULTRA

Gli Americani saranno anche dei paranoici cospirazionisti, sempre pronti a vedere intrighi e misteriosi “progetti” dei servizi segreti ovunque; ma bisogna ammettere che questa loro paura non nasce dal nulla. Di cospirazioni e di strane operazioni occulte ne hanno viste e vissute parecchie.

Anni ’50, inizio della Guerra Fredda. Stati Uniti e Russia cominciano a cercare freneticamente nuove armi per essere sempre un passo più avanti del loro avversario. E, in aggiunta alle ricerche batteriologiche e al perfezionamento delle armi atomiche, la CIA decide che ci sono i presupposti per iniziare un’operazione un po’ differente, sperimentale, e soprattutto illegale.

Sotto il nome in codice MKULTRA, il nuovo programma di ricerca segreto si propone di studiare e scoprire dei metodi per controllare la mente delle persone. Vi ricordate il nostro articolo su José Delgado? Ecco, la CIA vuole fare un ulteriore passo innanzi. D’altronde, pochi anni prima, aveva utilizzato l’Operazione Paperclip per reclutare i “migliori” scienziati e criminali di guerra nazisti, comprando le conoscenze acquisite durante gli esperimenti umani nei campi di sterminio, in cambio dell’immunità dai processi. Alcuni di questi scienziati avevano studiato tecniche di lavaggio del cervello, interrogatorio e tortura.

L’intento della CIA è quello di capire se esiste la possibilità di indurre, ad esempio, una persona all’assassinio programmato; se c’è un metodo scientifico per attuare il lavaggio del cervello o estorcere informazioni durante un interrogatorio; se si può alterare la percezione degli eventi nei testimoni, e via dicendo. Va da sé che per raggiungere questi risultati occorrono cavie umane. Così, se molti dei soggetti studiati dal progetto MKULTRA sono consenzienti, i ricercatori comprendono subito che per ottenere delle analisi precise e delle prove inconfutabili serviranno anche soggetti ignari… cavie che non sappiano di star prendendo parte all’esperimento. Anche in questo risiede l’illegalità dell’operazione, coperta quindi dal massimo segreto. E, sempre in massimo segreto, vengono investiti milioni e milioni di dollari in un progetto che a posteriori si può tranquillamente definire aberrante e criminale.

La maggior parte degli esperimenti relativi a MKULTRA hanno a che fare con le droghe. Si ricercano sostanze che alterino la mente in tutti i modi possibili: dalle sostanze più innocue che favoriscano la concentrazione, o che si dimostrino efficaci come rimedio per il dopo-sbronza… fino ai metodi chimici per creare confusione, depressione, paranoia e shock prolungati in un soggetto, per inibire le menzogne, per creare uno stato di ipnosi, per indurre lo svenimento istantaneo o la paralisi degli arti. Insomma, droghe “positive” che possono potenziare le truppe americane; e droghe “negative”, destinate a controllare e alterare la forza mentale del prigioniero o del nemico.

Gli esperimenti di MKULTRA meglio conosciuti sono quelli legati alla sperimentazione dell’LSD. Sintetizzata per la prima volta nel 1938 da Albert Hoffman, la dietilamide-25 dell’acido lisergico (LSD) era ancora sconosciuta al grande pubblico.  Gli agenti di MKULTRA decisero di comprendere i suoi effetti su una serie di cavie ignare, e nella famigerata Operazione Midnight Climax misero a punto questo sistema: dopo aver installato dei finti specchi in alcuni bordelli di San Francisco, con la complicità delle prostitute facevano in modo che al cliente venisse servito un drink in cui era stata disciolta una potente dose di acido. La “sessione” veniva quindi filmata da dietro lo specchio.

A poco a poco gli effetti della droga si manifestavano, e i clienti cominciavano ad essere preda di violente e incontrollabili allucinazioni; come si sa, l’LSD è fra le sostanze psicoattive sintetiche più potenti, con effetti che ad alti dosaggi possono spingersi ben oltre le 12 ore. I poveri clienti, arrivati con la modesta speranza di una seratina piccante, si ritrovavano di colpo scaraventati nel baratro della follia, in quella che aveva tutta l’aria di essere una crisi psicotica. Non capivano, non potevano capire perché di colpo vedessero le dimensioni della stanza alterarsi, il tempo distorcersi e la carta da parati pulsare come fosse viva. Si convincevano di essere impazziti di colpo, e il terrore si impadroniva di loro. Una volta esauriti gli effetti della droga, gli agenti si palesavano e intimavano alla vittima, ancora sotto shock, di non rivelare nulla di quanto era successo. Se avessero raccontato la loro storia, si sarebbe anche saputo che frequentavano il bordello… Alcuni dei soggetti non si ripresero più, e finirono ospedalizzati, e molti ritengono che diversi suicidi siano imputabili a questi esperimenti senza scrupoli.

Oltre alla somministrazione di droghe, il progetto sondò anche le diverse possibilità offerte dalla deprivazione sensoriale, dall’ipnosi, dalla privazione del sonno e dagli abusi verbali e fisici. Che tipo di osservazioni scientifiche si potevano trarre da simili esperimenti? Che valore aveva questa ricerca? Quando la CIA ammise pubblicamente, fra il 1975 e il 1977, l’esistenza del progetto MKULTRA e offrì le sue scuse, confessò anche che tutte queste ricerche non avevano portato ad alcun risultato concreto.  Gli agenti a capo degli esperimenti, si scoprì, non avevano nemmeno le qualifiche necessarie per essere degli osservatori scientificamente attendibili. Quindi la massiccia operazione, dal costo stimato di più di 10 milioni di dollari, e che aveva coinvolto numerose multinazionali farmaceutiche e distrutto la vita a molti civili divenuti cavie, non era servita a nulla.

Nonostante la declassificazione di molti documenti, iniziata nel 1977, e le ammissioni della CIA, c’è chi è pronto a giurare che la “confessione” sia un ulteriore depistaggio, e che il progetto MKULTRA non sia mai stato chiuso: continuerebbe ancora, sotto diverso nome, per mettere a punto metodi sempre più perfezionati di controllo della mente.

Ma la cosa forse più curiosa è un effetto boomerang che la CIA non poteva prevedere, e che cambiò la storia. Come ricordato, non tutti i soggetti degli esperimenti di MKULTRA erano vittime ignare. Fra i volontari che si sottoposero ad alcuni test con l’LSD in California, c’era anche un giovane studente della Stanford University. Questo ragazzo, sconvolto dal potenziale della droga, decise che avrebbe cercato di promuovere l’LSD anche al di fuori di MKULTRA. Lo studente era Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, che di lì a poco avrebbe fondato i Merry Pranksters e girato gli Stati Uniti portando follia e buonumore su un furgoncino multicolore, dispensando dosi gratuite di LSD a chiunque volesse provare. Grazie a Kesey cominciò la rivoluzione degli anni ’60, la pacifica ribellione hippie, e la cosiddetta psichedelia che cambiò volto alla società, alla musica, alla politica e alla cultura.

Da un terribile progetto segreto militare per il controllo della mente, quindi, nacque paradossalmente un movimento che in pochi anni conquistò il mondo; milioni di ragazzi cominciarono a predicare la liberazione della mente, l’espansione e l’allargamento della coscienza, l’uguaglianza dei diritti, il sesso libero, la convivenza pacifica e l’affrancamento da qualsiasi organizzazione militare o politica. Non esattamente quello che i vertici della CIA, con tutte le loro sofisticate conoscenze, avevano sperato di ottenere.

La biblioteca delle meraviglie – III

FREAKS – LA COLLEZIONE AKIMITSU NARUYAMA

(2000, Logos)

Ovvero “Lo Sfruttamento Delle Anomalie Fisiche Nei Circhi E Negli Spettacoli Itineranti”.

L’impressionante collezione fotografica di meraviglie umane di Naruyama è un vero tesoro. Immagini storiche, di un’importanza eccezionale, raccolte in un libricino che, pur non offrendo un approfondito background storico, ha il potere di stregare il lettore grazie alla bellezza delle illustrazioni. Dai Lillipuziani alla Meraviglia Senza Braccia, dai Bambini Aztechi ai ragazzi-leone, tutti i più famosi freaks vissuti a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo sono presenti nella raccolta; molte delle fotografie sono infatti relative agli spettacoli circensi e alle fiere itineranti americane in cui questi artisti si esibivano. Dopo lo show, un’ulteriore fonte di profitto erano proprio le fotografie che venivano vendute al pubblico, autografate. Per quanto l’esibizione della deformità all’interno dei carnivals americani sia un capitolo affascinante della storia dello spettacolo moderno, questo prezioso libro però, così focalizzato com’è sui ritratti, offre qualcosa di diverso.

La raccolta documenta un’epoca e una società attraverso i suoi corpi meno fortunati, e allo stesso tempo nello scorrere le pagine avvertiamo l’atemporalità di queste anomalie: nell’antichità come nell’epoca moderna, certi uomini hanno dovuto sopportare il fardello di fattezze eccezionali, spesso temuti ed emarginati. Eppure, se è vero che ogni uomo è specchio per il suo prossimo, fissando gli occhi di questi nostri fratelli dai corpi stupefacenti ci accorgiamo che il loro sguardo rimanda il riflesso più puro e vero.

Alex Boese

ELEFANTI IN ACIDO E ALTRI BIZZARRI ESPERIMENTI

(2009, Baldini Castoldi Dalai)

Una buona parte degli articoli di Bizzarro Bazar contenuti nella sezione “Scienza anomala” nasconde un debito verso questo splendido libro. Boese raccoglie, in forma divulgativa e spesso scanzonata, gli esperimenti scientifici più improbabili, sconcertanti, risibili – e, talvolta, illuminanti. Chi pensa che gli scienziati siano persone serie e compite, sempre nascosti dietro provette o lavagne piene di equazioni impossibili, farebbe meglio a ricredersi: l’immagine della scienza che esce dalle pagine di Elefanti in acido è quella di una disciplina viva, fantasiosa, sempre pronta a prendere le strade meno battute, anche a costo di errori madornali e vergognosi fallimenti. In definitiva, una disciplina molto più umana (nel bene o nel male) di come viene normalmente rappresentata.

Molti di questi esperimenti sono spassosi in quanto, a una prima occhiata, totalmente inconcludenti. Dai ricercatori del titolo, che somministrano a un elefante una potentissima dose di LSD, fino allo psicologo che in automobile resta fermo quando scatta il semaforo verde soltanto per cronometrare quanto ci mette l’autista dietro di lui a suonare il clacson, per finire con gli scienziati che costruiscono uno stadio per le corse degli scarafaggi, il tempo perso dagli studiosi in progetti dagli esiti comici può sconcertare. Eppure, come ricorda l’autore, non sempre la scienza ricerca soltanto le risposte alle nobili e grandi domande. Ogni tassello, per quanto insignificante possa sembrare, contribuisce a comprendere qualcosa di più del mondo in cui viviamo. È vero che gli uomini preferiscono le donne difficili da conquistare? Se cadessimo in un pozzo, il nostro cane verrebbe a salvarci? Perché non riusciamo a farci il solletico da soli?

I ricercatori le cui vicende sono narrate in Elefanti in acido hanno una fiducia smisurata nel metodo scientifico, e non esitano ad applicarlo a quesiti di questo tenore. Anche se, come nel caso dello scienziato che si incaponisce a contare tutti i peli pubici dei suoi colleghi, questa fiducia sembra talvolta divenire talmente cieca da non accorgersi dell’assurdità della ricerca stessa. E anche questo è molto umano.