The Enchanted Glasses

At the age of 18 I had eye surgery, thus getting rid of the glasses I wore since I was a child.
But many years spent between books and laptops, for twelve hours a day, begin to take their toll, and now I’m back to putting on glasses again. I thus rediscovered an enchantment that I had almost forgotten.

Wearing glasses has a double advantage: you can put them on, and take them off.
You can look at things clearly when you need to. If, on the other hand, I take off my glasses and don’t try to focus, rather I relax the muscles around my eyes as much as possible, reality becomes an impressionist painting. The tiniest or most distant details merge into esoteric forms, the identity of which I delight in guessing or inventing, looking for the most implausible solutions (I know that indistinct shape looking out the window above cannot be a horse’s head, but what if it was?). While walking in the park, I can even pretend to be an explorer of an alien world, with my helmet visor fogged up!
In the twilight, then, each room becomes mysterious. My own collection — as I often change places for the various pieces — is no longer familiar to me, if I look at it from a distance. I no longer remember what I put on that shelf, but there’s an object that appears as a soft and uncertain, milky brush stroke… it would be enough to put the glasses back on to know exactly what it is, and it’s enough to not put them on in order to stay lost in the reverie.

Yet it is not just a game. Having these two senses of sight available gives access to two different sensitive realities. One is defined, and allows to be navigated in safety; the other is of an imperfect and wavering beauty, as if lit by a flickering candle. One is dry, the other soft. One is subtle and precise, the other full of nuances.
They are complementary perspectives, even on a philosophical level: seeing everything clearly is useful but sad, like always being sober; seeing blurred gives access to the particular poetry of the unfinished but it is incapacitating, like always being drunk.

In his book In Praise of Shadows, Jun’ichirō Tanizaki wrote:

Remove the lid from a ceramic bowl, and there lies the soup, every nuance of ist substance and color revealed. With lacquerware there is a beauty in that moment between removing the lid and lifting the bowl to the mouth when one gazes at the still, silent liquid in the dark depths of the bowl, its color hardly differing from that of the bowl itself. What lies within the darkness one cannot distinguish, but the palm senses the gentle movements of the liquid, vapor rises from within forming droplets on the rim, and the fragrance carried upon the vapor brings a delicate anticipation. What a world of difference there is between this moment and the moment when soup is serverd Western style, in a pale, shallow bowl. A moment of mystery, it might almost be called, a moment of trance.

And finally there is one last wonder: without glasses, I can observe my own gaze. That is, I can concentrate on the “filter”, that slight blur that stands between me and reality and makes my vision so indecipherable. I am allowed to contemplate slight changes in the way the world presents itself: according to the light, to my own tiredness, to the dispositions of my heart.

This filter is the gift that time has given me, passing over my eyelids and depositing the patina of the past.

 

Illusione ottica culturale

Abbiamo visto spesso illusioni ottiche di vario tipo: spirali che sono in realtà cerchi concentrici, segmenti che ci appaiono più lunghi o corti quando sono della stessa misura, punti che “appaiono” all’interno di griglie vuote, eccetera. Sappiamo quindi che i nostri occhi non sono infallibili, e che anzi è piuttosto facile che si ingannino.

Ma l’illusione ottica che vi presentiamo oggi è davvero particolare, perché mostra come la cultura e l’ambiente in cui viviamo influenzino direttamente ciò che vediamo, e come lo interpretiamo. Guardate l’immagine qui sotto. Cosa vedete?

Molto probabilmente avrete visto una famigliola riunita in casa.

All’interno di una serie di test psicologici in Africa Orientale, alcuni ricercatori hanno mostrato ai volontari un bozzetto simile a questo. La quasi totalità dei partecipanti ha riconosciuto la stessa famigliola riunita che abbiamo visto noi, ma con una piccola differenza: per gli africani, le persone disegnate stavano all’aperto, sotto una palma, e la donna teneva una scatola in equilibrio sulla testa.

In una cultura poco abituata ad una architettura fatta di angoli e stanze squadrate, l’immagine viene letta immediatamente come un ambiente esterno. Per gli occidentali, invece, è più automatico interpretare il quadrato come una finestra attraverso la quale si intravede un giardino.

Camera obscura

Abbiamo già parlato della stenoscopia nel post relativo alle straordinarie macchine fotografiche di Wayne Martin Belger. Affrontiamo di nuovo l’argomento perché si tratta della base fisica che ha dato i natali ad arti quali la fotografia e il cinema, e perché la costruzione in proprio di primitive macchine fotografiche sta godendo di nuova vita. Sempre più sono quegli artisti e fotografi che cercano un punto di vista differente e, tornando alle origini, cercano nuovi mezzi espressivi e di ricerca visiva.

Tutta la fotografia si basa sul concetto di “camera oscura”. Non si tratta, come pensano alcuni, di quella stanzetta illuminata di rosso – tante volte vista nei film –  in cui i fotografi sviluppano le loro pellicole come novelli alchimisti. La camera oscura era in origine una vera e propria stanza che aveva un piccolo foro in una delle pareti, e nessun’altra fonte di luce. In questa stanza i pittori e i primi fotografi si ritiravano per lavorare alle loro opere. Infatti la luce del mondo esterno, entrando dal foro sul muro e attraversando il buio andava a proiettarsi, di molto ingrandita, sulla parete opposta. Chiaramente, l’immagine risultava capovolta e ben poco nitida, ma il procedimento aveva qualcosa di misterioso e magico che attirò gli studiosi della visione.

Infatti, come avrete intuito, la camera oscura ricorda molto da vicino il nostro stesso occhio, che altro non è se non un globo forato da una parte nel quale la luce penetra e si proietta capovolta sulla parete opposta alla pupilla, per essere poi percepita dal nervo ottico. (Curiosità etimologica: la pupilla, cioè il foro all’interno dell’iride, significa esattamente piccola pupa, bambolina; questo è dovuto al fatto che se guardate negli occhi qualcuno, all’interno della sua pupilla nera potete vedere una versione miniaturizzata di voi stessi, la vostra “bambolina”, appunto.) Fatto sta che il principio della camera oscura, reso con il tempo più piccolo e maneggevole di un’intera stanza, è tutt’oggi quello che fa funzionare macchine da presa e fotocamere (sempre per restare nell’etimologia, ecco spiegato perché le macchine fotografiche si chiamano “camere”).

Il rinnovato interesse per la fotografia stenoscopica, ossia praticata in questo rudimentale modo, ha fatto sì che molti amatori si costruiscano le loro macchine fotografiche stenopeiche, alcune anche molto fantasiose. Il blog Frankenphotography raccoglie molti esempi di questa nuova verve creativa. Di particolare interesse sono le macchine fotografiche di Francesco Capponi, che è riuscito a ricavare delle vere e proprie camere oscure da oggetti sempre più piccoli, come un cilindro da prestigiatore, un pezzo degli scacchi, un origami, una noce, o un pinolo:

Sempre lo stesso blog contiene un video decisamente affascinante su un moderno e improvvisato esempio di camera oscura:

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_qrG5jWZOPE]

Abelardo Morrell scatta le sue fotografie con questo metodo, talvolta riuscendo a capovolgere l’immagine (così da farla ritornare “dritta”) mediante l’uso di un sistema di specchi.

Il metodo ha vantaggi e svantaggi. Difficile è calcolare con precisione il tempo necessario per impressionare la pellicola attraverso un foro stenopeico, ma si parla anche di alcune ore. Il foro, inoltre, se non accuratamente forgiato, può dare luogo a fenomeni di diffrazione; per diminuirli occorrerebbe ridurre il diametro del foro, aumentando però così i tempi di esposizione. Le immagini comunque non saranno mai nitide e precise.

Dall’altro canto, la profondità di campo è illimitata (perché non si utilizzano lenti) e gli stessi difetti (sfocatura, approssimazione ed evanescenza dell’immagine) possono essere utilizzati come scelta espressiva. Le fotografie così ottenute sono infatti imprevedibili, evocative e fragili al tempo stesso, e hanno un sapore antico che le moderne macchine digitali riescono a riprodurre soltanto dopo un lungo lavoro di post-produzione.

Ringraziamo Frankenphotography per le immagini.