Intervista a un’anatomopatologa

Qualche giorno fa mi ha contattato un’anatomopatologa che ha da poco scoperto Bizzarro Bazar, rimanendo a suo dire piacevolmente colpita dall’assenza di “compiaciuta morbosità”. Non potevo non cogliere al volo l’occasione di chiacchierare con lei della sua meravigliosa professione: ecco dunque cosa mi ha raccontato dei diversi aspetti di un ambito lavorativo poco conosciuto al grande pubblico, e in un certo senso di frontiera, perché studia il “difforme” e la morte per comprendere le condizioni che ci mantengono in vita.
Cosa ti ha spinto a diventare anatomopatologa?
A sedici anni decisi che dovevo capire la malattia e la morte.
Il lavoro dell’anatomopatologo è molto articolato e vario, e prevalentemente eseguito sui vivi… o almeno su parti di vivi asportate chirurgicamente, ma è indubbio che una delle attività della routine anatomopatologica sia la diagnostica autoptica e proprio questo è stato uno dei motivi della mia scelta, non lo nego. Fare l’anatomopatologa era il modo migliore di mettere a frutto la mia passione per l’anatomia, trasformandola in professione, con in più la possibilità di esorcizzare la paura della morte frequentandola… sporcandomene le mani e guardandola. Volevo capire e indagare come muoiono le persone. Poi forse ha influito una certa predisposizione visuale, e l’anatomia patologica è una disciplina morfologica che richiede memoria visiva ed attenzione al dettaglio macro- e microscopico, alle differenze di forma, alle sfumature di colore.
Esistono pregiudizi riguardo al tuo lavoro? Come hai spiegato ad amici e parenti la tua “vocazione”?
In realtà il “grande pubblico” non sa bene che cosa esattamente faccia l’anatomopatologo e di qui nasce una certa curiosità morbosa da parte dei non addetti. I più pensano a Kay Scarpetta dei romanzi della Cornwell o ai telefilm tipo CSI. Quando all’inizio della mia carriera mi chiedevano cosa facevo, mi dilungavo in dettagliate spiegazioni sull’aspetto non macabro del mio lavoro, ovvero sull’importanza in oncologia della diagnosi istologica ai fini della pianificazione del trattamento, proprio per evitare di stimolare una certa curiosità nei miei confronti, ma venivo guardata con aria interrogativa. Allora, per tagliare corto, ammettevo: “faccio anche le autopsie”, e finalmente vedevo un guizzo di interesse nello sguardo dell’interlocutore. Non mi sono mai sentita tacciata di perversione, ma qualche volta ho notato una sorta di timore. Ogni tanto un vago pregiudizio sessista (la domanda inespressa era come poteva una ragazza normale appassionarsi ad una cosa del genere); non erano ancora in voga i personaggi di patologhe sexy dei romanzi o delle serie tv, e alla scuola di specializzazione, subito dopo la laurea, ero l’unica donna. Per quanto riguarda parenti e amici… be’, i miei genitori non mi ostacolarono in nessun modo nelle mie scelte… credo non abbiano ancora ben capito cosa faccio, e se cerco di spiegare in genere mi chiedono di risparmiare i dettagli! Coi figli adolescenti, intrigati dal mio lavoro, cerco di convogliare l’attenzione sugli aspetti scientifici. Nell’ambiente medico invece c’è un po’ l’idea che l’anatomopatologo sia una specie di nerd genialoide, o una persona totalmente negata per i rapporti interpersonali che si rifugia in una specializzazione che non è direttamente centrata sul rapporto medico-paziente. Il che ormai non è più vero visto che per esempio è spesso il patologo che esegue direttamente le biopsie, e che quindi si confronta con il paziente.

Quanto è importante, oggi, l’esame autoptico?
Chiariamo: l’anatomopatologo in Italia non è il medico-legale, ma corrisponde a quello che gli americani chiamano il surgical pathologist. L’autopsia che viene svolta dall’anatomopatologo è sui deceduti in ospedale (quindi non il precipitato o l’impiccato, per intenderci) per rispondere ad un quesito clinico ben preciso, mentre l’autopsia giudiziaria viene fatta dal medico-legale su incarico della procura.
Si sarebbe tentati di pensare che con l’affinarsi delle tecniche radiologiche di imaging l’esame autoptico sia ormai superato. In alcuni centri si fa la cosiddetta “autopsia virtuale” con esame tomodensitometrico (ovvero la TAC). In realtà nei casi in cui in vita non si sia giunti ad una diagnosi il riscontro autoptico è tuttora l’unico esame capace di illuminarci sulla causa finale di morte di un soggetto. Anche perché, oltre alla visione diretta, permette di fare dei prelievi di organi da esaminare al microscopio con le colorazioni convenzionali o da sottoporre a test più raffinati, magari di biologia molecolare. In ambito giudiziario poi l’esame diretto della salma ci permette di raccogliere indicazioni sulla cronologia, sui luoghi e sulle modalità del decesso che nessun altro esame può darci.
C’è ovviamente una grossa differenza (metodologica e di certo anche emotiva) fra l’analisi post-mortem a livello macroscopico e microscopico. Nella tua esperienza, ai fini scientifici, una delle due fasi è più rilevante dell’altra o sono ugualmente fondamentali?
Sono entrambe imprescindibili e strettamente connesse: l’una non può fare a meno dell’altra. L’esame visivo, ispettivo, guida il successivo esame in microscopia ottica, nel senso che il patologo va a campionare certe zone di tessuto, e non altre, da sottoporre all’esame microscopico, basandosi sulla percezione visiva di difformità rispetto al “normale”.

Nella mia pur limitata esperienza delle sale settorie, ho visto mettere in atto alcune strategie di difesa per distanziarsi dalla tragicità che talvolta accompagna l’indagine medica. Da una parte un certo umorismo, mai irrispettoso, dall’altra piccoli accorgimenti volti a salvaguardare la dignità della salma (ma che forse in parte servono anche ad allontanare l’idea che un’autopsia sia un atto di violazione). Come ti sei abituata agli aspetti più crudi del lavoro?
Ho assistito per la prima volta ad un’autopsia al primo anno di medicina e mi ricordo ancora oggi, praticamente dopo 30 anni, ogni particolare. Avevo anche rischiato di svenire. Comunque, superato l’impatto iniziale ho poi imparato a concentrarmi sui singoli dettagli anatomici, cercando di operare come se fossi un chirurgo in sala operatoria, con la massima cautela, evitando tagli inutili, e mai pensando di lavorare su una salma, ma su una persona. Con una sua storia, con i suoi affetti, presumibilmente con qualcuno fuori dalla sala che ne piangeva la dipartita. Una cosa che faccio sempre, dopo l’esame esterno e prima di incidere, è coprire il volto della salma. Quasi a impedire, per assurdo, che veda cosa sto facendo… e, forse, anche per evitare la sgradevole impressione di sentirmi osservata.
Ci sono soggetti su cui è più difficile lavorare, da un punto di vista emotivo?
I bambini.
Le autopsie, in linea di massima, sono accessibili a un pubblico non accademico? Consiglieresti la visione di un’autopsia?
No, quelle medico-legali non sono accessibili, per ovvi motivi, visto che spesso c’è un procedimento giudiziario in corso; i riscontri diagnostici in ospedale neanche. Non so se consiglierei la visione di un’autopsia a chiunque lo chiedesse. Credo però che dovrebbe essere prevista la possibilità almeno per tutti gli studenti universitari di discipline biologiche e mediche.

Uno degli aspetti che mi ha sempre affascinato dei musei di anatomia patologica è la vitalità del morbo, l’esuberante fantasia con cui le forme possono modificarsi: il corpo patologico è un corpo fluido, libero, dimentico di quei limiti che vorremmo invalicabili e prefissati. Basta guardare certi tumori ossei, simili a strane spume minerali, per vedere il morbo come uno strano e terribile florilegio.
Forse è stato proprio questo sentimento di meraviglia di fronte a una Natura dalla bellezza pericolosa e mortale, ad animare i primi anatomisti: una sorta di segreto rispetto per la malattia che si cerca di combattere, non dissimile dal timore reverenziale del cacciatore che studia la sua preda prima di tentare il massacro. Hai mai provato questo senso del sublime? L’apparente paradosso della figura dell’anatomopatologo appassionato (come si può provare entusiasmo per la malattia?) nella tua esperienza passa anche per questo tipo di ammirazione?
Ci si appassiona nel senso che si avverte una propensione verso una materia, verso un modo di fare ricerca, verso un approccio metodologico che parte dal fenomeno morfologico per correlarlo al fenomeno funzionale. Non si prova entusiasmo verso la malattia, ma verso una disciplina che ci insegna a vedere (Domine, ut videam) per comprendere la malattia. E sperabilmente curarla.
E sì certo, c’è quotidiana l’esperienza del sublime, l’esperienza estetica, l’ammirazione per le forme e i colori e le informazioni che ci danno. Se sappiamo interpretarli.

E, parlando ancora di vitalità del morbo: oggi riconosciamo in alcuni esemplari teratologici la prova dei tentativi attraverso cui l’evoluzione procede costantemente a tentoni, a furia di esperimenti falliti e vicoli ciechi. Sotto questo aspetto, quanti di questi corpi “malati” (da “mal atto”, poco adatto) sono in realtà l’esatto opposto, cioè dei veri e propri tentativi di adattamento? Un esempio di mutazione (che una differente deriva genetica avrebbe potuto eleggere a fenotipo dominante) è per forza patologico?
Quello a cui voglio arrivare, ovviamente, è un altro dubbio che un museo di anatomia patologica inevitabilmente suggerisce: quali sono davvero i confini della Norma?
La norma è intesa in senso statistico secondo la curva di distribuzione gaussiana, ma ciò che ricade oltre il 90° percentile (o prima del 10°) non significa che non sia naturale, o malato o in-sano. È solo statisticamente meno rappresentato nella popolazione generale rispetto al carattere fenotipico che stiamo esaminando. Se poi un carattere statisticamente infrequente possa rappresentare o meno un vantaggio lo si vedrà nel corso del tempo.
Insomma, i confini della norma sono convenzionalmente stabiliti su base matematica. Ciò che non è la norma è solo più raro. D’altra parte la biologia è in perenne trasformazione (nuovi farmaci o terapie, modificazioni climatiche e ambientali, grandi migrazioni…), e quindi si modificano anche i reperti che arrivano alla nostra osservazione. Il che rende il nostro lavoro in continua evoluzione.
Non mi aspettavo una risposta così tecnica… la mia era in realtà una domanda teorica e piuttosto “tendenziosa”. Come si capisce dal lavoro che da anni porto avanti sui concetti di diversità, esotismo e difformità, volevo pungolarti per vedere se anche dal tuo punto di vista il corpo mutante potesse essere considerato come un territorio a suo modo rivoluzionario, elemento perturbante in un contesto che esige un adeguamento alla Norma.
Domanda tendenziosa… risposta di comodo. Tu mi parli di cultura che esige l’adeguamento ad una norma sociale, io ti ho risposto in termini di biologia che esige un adeguamento ad una norma che però è imposta dalla comunità scientifica secondo un criterio basato sulla statistica frequentistica, quindi comunque convenzionale. In realtà il difforme irrompe in modo inatteso, e andrebbe descritto più correttamente secondo una logica probabilistica e non frequentistica. Ma sto andando di nuovo sul tecnico.
Ho visto stimati professori illuminarsi come bambini di fronte a dei preparati patologici in liquido. La sensazione che ho avuto è che lo sguardo clinico legittimasse un interesse per visioni estreme, precluse alla massa. Si tratta davvero di un interesse esclusivamente scientifico? È possibile appassionarsi sinceramente a questo genere di lavoro senza essere sensibili al fascino del bizzarro?
Può darsi ci sia un po’ di autocompiacimento, talvolta. Ma in linea di massima c’è davvero una passione sincera ed entusiasta per l’argomento, e quella di certo non si può fingere. È una professione che puoi svolgere solo se la ami.
Tutta la nostra disciplina si basa sulla diagnosi differenziale morfologica tra normale e patologico. Potrei dire che il patologico è dismorfico rispetto al normale, quindi per estensione che è bizzarro, diverso. E allora sì, bisogna essere sensibili al fascino del bizzarro. E molto curiosi.

La passione per il macabro è una tendenza in forte ascesa, soprattutto fra i giovani, e di norma viene giudicata negativamente e rifiutata in toto dagli ambienti accademici italiani in quanto “poco seria”. Questo non avviene in altre realtà (non solo quella americana, ma anche nel più vicino Regno Unito), in cui anzi il saper incuriosire una fetta ampia di pubblico, giocando magari sugli aspetti più pop e tenebrosi, è diventato un elemento comune della comunicazione museale. Il concetto è “come for the macabre, stay for the science“. Se dei giovani si avvicinano alla materia attirati dall’immaginario macabro, pensi che nel tempo questo possa portare alla formazione di nuovi, seri professionisti?
Sì, è vero, c’è un crescente interesse, penso anche a certe esposizioni di preparati anatomici che hanno visto inattesi flussi di visitatori tanto da doverne prorogare la chiusura. Mi viene anche in mente una delle trasmissioni preferite dei miei figli sui modi più assurdi di morire. Io sono convinta che siano un incentivo e che vadano sfruttati come base di partenza per ingenerare la curiosità verso gli aspetti scientifici dell’argomento. Credo che si possa e si debba usare quest’attrazione verso il macabro per avvicinare le persone, i giovani, alla scienza, soprattutto in questo periodo di derive neosciamaniche e deliri pseudoscientifici. Forse serve anche per ricominciare ad ammettere che la morte fa parte della nostra vita quotidiana, e quindi per trovare un modo di rapportarci con lei. A differenza dei paesi anglosassoni in Italia c’è un retroterra religioso, culturale e legislativo parzialmente di ostacolo in tal senso (penso agli impedimenti legislativi di procedere alla dissezione cadaverica per motivi di studio, alla concezione religiosa ancora molto radicata che l’autopsia sia una violazione o profanazione del cadavere, oltre ad un pregiudizio verso la scienza e la conoscenza che porta ad azioni grottesche come la petizione per chiudere il Museo Lombroso).
La tua professione ha cambiato in qualche modo il tuo rapporto personale con la morte e il morire?
Direi che più che altro ha cambiato il mio rapporto personale con la vita e il vivere. La mia paura principale non è più il morire. Temo maggiormente il dolore, e il decadimento fisico ed intellettivo, con le limitazioni che impone. Confido in una morte lontanissima, rapida e indolore.

Nei tuoi vent’anni di esperienza sul campo, ci sono stati episodi o aneddoti particolarmente curiosi che ti senti di raccontarci?
Molti, ma ho ritegno a parlare di episodi nei quali il soggetto sia la salma di una persona. Però posso dirti che spesso mi capita di chiedermi non tanto come siano morte le persone, ma come diavolo facessero a rimanere in vita, date tutte le patologie che trovo! E mi sembra ancora più una meraviglia in bilico sul niente, la vita.